RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it
03 settembre 2012
Eat Sleep Die
Alla SIC convince l'esordio di Gabriela Pichler: dalla Svezia con umana e umanista sofferenza
Manifesta da subito le sue intenzioni "politiche" Gabriela Pichler, giovane regista svedese al suo primo lungometraggio, dopo essere stata premiata in patria per il corto Skrapsär (Scratches, 2008): titoli di testa semplici, sparati su uno sfondo nero dove compaiono decise scritte bianche per dare rilievo alle singole entità/unità del progetto. Perché di questo si tratta con Äta Sova Do (Eat Sleep Die/Mangia dormi muori), presentato alla Settimana della Critica: ricollocare al centro della tensione drammaturgica, sociale e storica, in cui oggi l'uomo si ritrova, l'individuo. E non poteva essere altrimenti con uno titolo del genere: Mangia dormi muori, azioni secche, primarie, automatiche, che per il fatto stesso della nascita, ognuno di noi ha nel proprio imprinting (bio)logico. E l'individuo è Raša, giovane ragazza, svedese di origine balcanica e di religione musulmana, una tipa tosta, maschiaccio che sa come cavarsela, efficiente nella catena di "vaschettaggio" verdure della fabbrica nel piccolo centro non ben identificato dove vive col Pappan (padre), acciaccato dai lavori al freddo della vicina Norvegia, che non ottiene chissà per quale motivo (non è svedese al 100 per cento?) il sussidio dalla Previdenza sociale. Ritorna in bici dal lavoro con Niki, giovane come lei, amante degli animali. Camera da presa che la accompagna, ma che è capace di allargare lo sguardo, registrando le sue giornate col padre, nel gioco, nella quotidianità della casa, con gli amici, a bere al pub, nel tempo che scorre, fino a quando la fabbrica deve tagliare per sopravvivere, facendolo in modo "umano": rende partecipi gli operai, i capi sono aperti al dialogo, col risultato però di consegnarli nelle maglie strette della gabbia dorata e burocratica dell'Employment Service. Esplosione di vitalità, e quotidianità, con improvvisi sguardi silenziosi che con l'inquadratura registrano stati d'animo, in cui sono i visi scavati e normali dei protagonisti (tutti alle prime armi) ad essere testimoni fondamentali: Eat Sleep Die invoca un altro destino rispetto a quello che contiene nelle sue parole lapidarie, sperando che almeno Raša possa andargli contro, allontanandosi da quella provincia così cara perché sicura, ma che contiene anch'essa in nuce la repulsa allo straniero, che molta Europa (l'uomo?) si porta da sempre dentro, per farla affiorare nei momenti di crisi. Come forse avrà vissuto sulla sua pelle la stessa regista, di genitori bosniaci e austriaci emigrati in Svezia. Scoprendo quanto si deve lottare per essere individui.
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