RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it

<i>Drive</i>

28 settembre 2011

Drive

Premiato a Cannes, Nicolas Winding Refn come il suo pilota no name Ryan Gosling: su commissione, ma guida da Dio

Per il cinema del Terzo Millennio, una promessa già mantenuta: Nicolas Winding Refn. Il genietto danese della trilogia Pusher, Bronson e Valhalla Rising è sbarcato in America, facendo di necessità produttiva virtù: Drive home safely, porta a casa la cifra stilistica, la poetica innervata di romantico pessimismo, la violenza servita con un bacio, lo stallo in movimento e il premio alla regia di Cannes. L'ha voluto Ryan Gosling, folgorato sulla via di Copenhagen, perché dirigesse l'adattamento del romanzo di James Sallis. Il produttore Mark E. Platt era rimasto affascinato dal pilota talentuoso, "buono" e innominato, come il cattivo di Dirty Harry: Clint Eastwood, Steve McQueen, la fascinazione per gli uomini che parlano con le azioni, impugnando un bastone. Il 40enne Refn non ha eluso queste attese, ma fatto di meglio: stuntman per il cinema e pilota per la criminalità, il suo protagonista no name (Gosling, straordinariamente impassibile) ci guida nella generazione no future, dove l'amore – per la stupenda Carey Mulligan – è solo potenza, la facoltà non si abbina alla proprietà (guida, non possiede auto) e la tenerezza e lo spirito paterno stanno nella stessa inquadratura della violenza iperrealista, del parossismo vendicativo che rasenta lo splatter. Ma in questa traiettoria di genere, Refn inscrive le prospettive del suo grandangolo, una luce lirica che contrappunta l'ambigua esistenza del protagonista e del milieu, in primis la premiata ditta Ron Perelman e Albert Brooks. There will be blood, e scorrerà anche il sentimento, ma frustrato: l'unico bacio tra Ryan e Carey è un escamotage per il compimento della violenza, una testa maciullata sotto le scarpe. La fisicità è asservita alla lotta, se non una sua esclusiva. In una scena da brividi, staticamente elettrica e sensualmente evocativa, Ryan e Carey si sorridono muti, lasciando parlare la luce: è il loro climax. Sulla carreggiata dell'action criminale, il Refn di Drive fa stop e go nell'intimismo, rifornisce macchina e pilota di ineluttabilità e masochistica accoglienza di un sé anoressico, che non conosce il desiderio compiuto: pilota senza direzione, tiene la strada come nessuno, ma non per andare là dove vorrebbe. Dalle Iene (evocate nei nomi Blanche e Bernie Rose) ai grandi arrabbiati ‘70s, passando per i tragitti fottuti di Abel Ferrara, l'ascissa on the road di Schrader e l'ordinata mélo di Sirk, si arriva al modello più nettamente percepibile: Michael Mann, nelle immagini riflesse, nella coreografia dell'azione, nel sottotesto esistenziale. Ma di Mann non condivide appieno il romanticismo, perché Drive sfiora il nichilismo: leva e mette la maschera da stunt il pilota, ma in realtà non la toglie mai, come il suo antagonista Ron Perelman, l'Hellboy di Del Toro. Refn lo sa, e ci gioca con sapienza scapigliata e adrenalinica serietà, regalandoci le sequenze action migliori degli ultimi anni: arriverà un'ultima coltellata, ma il driver ritroverà la sua posizione nel mondo. Al volante, ancora e sempre: la sua funzione è il nome, la macchina il posto di lavoro. Lo lasciamo lì, mentre la musica lo celebra eroe, con gli occhi eyes wide shut del metacinema: pilota come Refn, che guida da Dio una macchina non sua.

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