RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it
30 ottobre 2010
Oranges and Sunshine
"I bambini perduti dell'Impero" britannico ritrovati da Jim Loach: in Concorso, con i contenuti del padre Ken e lo stile del nonno...
La storia di Margaret Humphreys, assistente sociale a Nottingham, e la Storia che portò alla luce: la deportazione di oltre 30mila bambini dal Regno Unito in Australia, "I bambini perduti dell'Impero", tra il 1930 e il 1970. E' Oranges and Sunshine (arance e sole promesse a questi orfani, indigenti o concepiti fuori dal matrimonio per farli approdare nel paese dei canguri e altrove), che segna l'esordio alla finzione di Jim Loach, 41 figlio di Ken il Rosso e già regista di serial televisivi. In concorso alla quinta edizione del festival di Roma, il film è costruito su Emily Watson, nei panni di Margaret, cartina tornasole di questo scandalo e, progressivamente, spugna: l'elastico tra Inghilterra e Australia, i racconti drammatici degli ex bambini abusati e umiliati in istituti religiosi e non, la ricerca dei loro genitori back in the UK, la propria famiglia trascurata a fine di bene, la conducono sull'orlo di un esaurimento nervoso, non prima di aver stretto rapporti profondi quanto difficili con due di questi bambini invecchiati senza identità , Jack (Hugo Weaving), vittima come vittima dev'essere, e Len (David Wenham), vitale anti-vittima e un filo manipolatorio. Questa la sinossi, viceversa, Oranges and Sunshines è sintetizzabile criticamente quale "film di Jim Loach, con i contenuti del padre e lo stile del nonno". Se la storia ha tutti gli elementi già cari a papà , viceversa, la forma non ha nulla dello stile sporco e "arrabbiato" cui ci ha reso avvezzi il regista di Riff Raff e Terra e libertà , che pure non è un virtuoso: sebbene palestrato dalle valenti serie inglesi, Jim si riduce a puro illustratore di contenuti, siglando un film che ha tutta la chiarezza, ma non l'incisività e la nettezza, di un telegramma. Indi, pollice alzato per la storia e verso per il racconto, cui non giova nemmeno una drammaturgia tutta giocata sull'iterazione e, dunque, aperta alla noia: se la Watson lotta soffrendo e fa brillare gli occhi di passione civile, comunque non incanta, al contrario di Wenham, ferito ma mai domo, eppure nemmeno loro riescono a mettersi in corsia di sorpasso. Si adagiano sui binari di un onesto film di denuncia, che storicamente fila dritto ma deraglia sullo schermo. Almeno, se si parla di cinema.
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