RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it

<i>Miral</i>

02 settembre 2010

Miral

Delude la trasposizione di Julian Schnabel da Rula Jebreal: arte al minimo, una fiction senza se e senza ma in Concorso

Tre generazioni di donne, tre germogli di vita, mentre là fuori tutto è odio, guerra, ostilità. Si parte dal 1948, a Gerusalemme: Hind Husseini (Hiam Abbass) trova 55 orfani, non li abbandona, bensì li sfama, li accudisce finché diventano quasi 2000. La sua casa si trasforma nell'Istituto Al-Tifl Al-Arabi: una scuola per dare istruzione alle orfanelle e ridare speranza alle vittime del conflitto israelo-palestinese. Sul filo rosa, passano altri 30 anni: è il '78 quando una bambina di 7 anni arriva all'istituto, fresca orfana di madre. Si chiama Miral (Freida Pinto) e poco sa di quel che accade fuori da quel locus amoenus. Ma non dura: all'età di 17 anni, mentre infuria l'Intifada, Miral va a insegnare in un campo rifugiati, e tutto cambia. Trova l'amore per un attivista politico e, ancor prima, la conspaevolezza della guerra che infuria e che nessun accordo internazionale sembra poter fermare...Per amore, solo per amore: non di cinema, però. Il nuovo film di Julian Schnabel nasce dal cuore, ma la settima arte c'entra poco: dopo l'ottimo Lo scafandro e la farfalla, l'artista-regista adatta La strada dei fiori di Miral, il romanzo biografico della sua compagna, la scrittrice palestinese Rula Jebreal, ben nota al pubblico italiano. Il risultato, appunto, ha più le ragioni del cuore che dell'arte: quella che Schnabel ci ha fatto apprezzare rimane nelle inquadrature sghembe, nelle saturazioni, negli effetti flou e nella macchina a mano che tutto può ma, almeno qui, nulla stringe. Insomma, poca roba, e incongrua: perché tutto il resto è fiction, che oscilla tra Women without Men di Shirin Neshat e le nostrane produzioni con Manuela Arcuri, sotto la bandiera della causa palestinese senza se e senza ma. Al netto di ogni considerazione ideologica, che il film non offre, la spudoratezza è partigiana quanto controproducente come solo una tesi senza sintesi può essere: la prima persona singolare della Jebreal, in cammeo automobilistico alla fine del film, non è mai supportata da un dialogo fertile tra le ragioni dello j'accuse privato e quelle pubbliche cui il cinema non può venire meno. Qui, viceversa, Miral diventa il miraggio di un film che non c'è: indugia nel lacrimevole e nello stucchevole, riduce l'arabo a "Salam aleikum" e cede il passo all'inglese posticcio, traduce la femminilità nelle tinte pastello, i chiaroscuri della Storia nella solare esemplarità delle storie. Semplicemente, non va: almeno per il Concorso, in televisione, invece...

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