RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it

<i>This Must Be the Place</i>

20 maggio 2011

This Must Be the Place

Il film americano di Sorrentino, in Concorso, sceglie il compromesso tra una poetica e una tradizione (l'On the Road). Più importante che riuscito

Spiazzati. E' la prima reazione da spettatori a This Must Be The Place. Non è detto sia un male. Era molto atteso, è venuto fuori qualcosa che non ci attendevamo. Un'opera che appartiene sì a Paolo Sorrentino, ma che Sorrentino stesso prima non aveva mai fatto. Non così. Il viaggio in America del regista napoletano regala anche risposte. Conferma il suo indiscutibile valore come cineasta di caratura internazionale, la maestria tecnica, l'inconfondibile impronta autoriale. Pure se lasciata in uno spazio non suo, già congelato nella memoria, esplorato in lungo e in largo. Lo spazio americano, luogo fisico e mitologico, una traiettoria dello sguardo e un itinerario interiore. La frontiera da attraversare per ogni viaggiatore. Uno spazio che definisce un genere, l'on the road. Che a sua volta impone un registro espressivo, una struttura drammaturgica, una tradizione consolidata, tutta americana.E' in questa bolla di immaginario che Sorrentino inscrive il suo. Il risultato è Chayenne (Sean Penn), l'indiano, l'altro, l'alieno. Qualcuno che si fa fatica a riconoscere, che è difficile accettare. Che fatica a riconoscere lo spazio intorno a sè. Un personaggio fortemente iconico, perturbante come una maschera di carnevale, un uomo che ha abbandonato il palcoscenico (Chayenne è un'ex rockstar) ma è rimasto spettacolo, pantomima offerta agli altri.Chayenne è Sorrentino e anche Sean Penn, perché di entrambi rappresenta la diversione prospettica, il cambio di scena, la scommessa. L'alieno e l'azzardo. La fobia che imprigiona e il coraggio che libera. Sean Penn rischia di perderla questa sfida, ma alla fine la vince. Agghindato come il leader dei Cure (Robert Smith), lento, affettato, vagamente nevrotico, suscita all'inizio ilarità. Ma lentamente cresce, si inabissa dentro il suo personaggio, fino a diventarlo. E quando alla fine torna Sean Penn - senza smalto nè parrucca - non c'è shock. Era sempre stato Chayenne. Il viaggio attraverso l'America, pilotato dal suo occhio alieno più che dal desiderio di vendicare il padre (scovando il vecchio nazista che l'aveva perseguitato nei campi di concentramento), appartiene tutto a Sorrentino invece. E non solo per l'ironia, i virtuosismi di macchina, l'icasticità di alcune sequenze o lo stupore evidente con cui il regista vede, sente la "terra dell'abbondanza". Ma perché la sua poetica è sempre stata a fianco dei "Chayenne", improntata al gioco, incapace di superare la stagione dell'infanzia. Chayenne come Il Divo è un bambino stagionato. Il gioco e la paura, il candore è l'avventatezza - caratteristiche del bambino - sono il modo di stare al mondo dei personaggi di Sorrentino. Non a caso, al momento decisivo, Chayenne non premerà il grilletto contro il suo bersaglio. Ma si prenderà "gioco" di lui. La vendetta diventa una specie di scherzo.Non sappiamo quanto spirito americano ci sia in questa chiave interpretativa, ma c'è molto del cinema del napoletano. E' il pregio di This Must Be the Place. E il suo limite.Spiazzati e perplessi: perché è come se la poetica del regista - così connotata - non riuscisse a fondersi fino in fondo con il movimento dell'On the road. Come se la sua natura essenzialmente ritmica, musicale, intensiva, soffrisse la linearità narrativa, la gabbia del racconto. Il cinema di Sorrentino è sempre stato un cinema discorsivo, di stile, di raccordi. Quello americano invece di racconti, di archetipi, di mappe precise.Le due anime cozzano, generano un paradosso: un film sul movimento senza movimento. Vivace dentro il quadro, ma prigioniero di una cornice. Bello da vedere, faticoso da seguire.

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