RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it

<i>Stopped on track</i>

15 maggio 2011

Stopped on track

La morte ti fa buona: al Regard, la malattia terminale secondo Andreas Dreisen. Senza sconti, con verità (e commozione)

La morte lo fa bello. E' anche bello il film di Andreas Dreisen, Stopped on track, ma non solo né soprattutto. E' buono e vero, e commuove da far male. C'è poco cinema, potremmo dire del "bello", perché a dare negli occhi è la vita, quella che se ne va e quelle che rimangono. Ma il cinema non va fuori dal campo, rimane e si fa sentire solo quando e perché serve: se di settima arte vogliamo parlare, questo è un ready-made, che prende l'esperienza più universale al mondo e ne fa un canto alla vita, tragico e ineluttabilmente comico, perché quando ti muore un padre non puoi rimanere al suo capezzale, ma devi andare fuori "ad allenarti", per tuffarti dal trampolino che ora tocca a te, e te (da) solo. Costruito dopo lunga documentazione medica e psicologica, veri medici nel cast e sceneggiatura fluida, scritta dalla libertà e l'improvvisazione di attori sapienti ed empatici, Stopped on track è ad oggi – e per quel che abbiamo visto – il film migliore di Cannes 64 (è nella sezione Un Certain Regard). Non perché la forma sposti più avanti i confini del cinema, ma perché la storia ci riporta indietro al grado zero della nostra esistenza, quello che, viceversa, l'immaginario occulta e i mass-media espellono "farmacologicamente": la morte, che ti viene diagnosticata di lì a due o tre mesi, quando hai solo 40 anni, due figli e una moglie cara, ma il tumore al cervello non si può operare.Tocca a Frank (Milan Peschel), che lavora per la DHL ed è uno qualunque, con una piccola casa, la sua Simone (Steffi Kuhnert) a manovrare il tram, il piccolo Mika da crescere e la figlia più grande Lili a lottare per la sua adolescenza. Simone piange quando il medico dà l'ultimatum,Frank no, ma dentro gli piangono due domande: perché io, perché ora? E' il tempo dell'addio: breve e insieme lungo, perché il tumore si espande e le giornate si fanno più corte, più immemori e il tuo caso te lo trovi "per sogno" anche alla radio e in tv. Inizi a tornare indietro: non sai più montare un letto, la testa ti gira e vomiti, i cani corrono troppo e dove non devono, tua moglie è amorevole e paziente, ma non ne può più. Neanche tu, del resto, e se non puoi riprenderti riprendi la tua fine con lo smartphone: frammenti, barzellette, i capelli che se ne vanno, quello che ancora ti tiene in vita, i sorrisi e i non sorrisi dei tuoi. Passa tutto, anche i genitori di Frank: ma non torneranno, lo farà solo il padre, perché mamma non regge, mentre Simone si becca pure gli insulti del marito, quel marito che inizia a non essere più lui. A seconda della fase dell'addio, che cambia più dell'umore: isolamento, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione, per la scienza è questa la cronologia emozionale che ci accompagna alla morte, ma Frank e Dreisen la mischiano, ne fanno un patchwork slabbrato e incontrollabile come il tumore in testa. Arriverà il definitivo stop, ma prima abbiamo sentito dentro le ragioni di tutti: chi va e chi rimane e deve incominciare a staccarsi, accettare una morte di un caro per avere ancora cara la propria vita. Ma di questo vulnus lo sguardo del regista non fa pornografia né ricatto: i colpi di scena, le tacche del tracollo sono anche osceni, ma perché così vuole la vita agli sgoccioli e non la rappresentazione, che tra tutte è la cura migliore offerta a Frank e alla sua storia finita. Così è la vita, così anche quando non è più, ed è un film bello, buono e vero. Che fa male: ma se non ora quando?

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