RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it

<i>127 ore</i>

24 febbraio 2011

127 ore

Tutto Boyle in un canyon: pathos, adrenalina e ricatto. Se il bravo James Franco ci lascia un braccio, lui ne sarebbe uscito intero...

Come ripartire dopo sette Oscar? Reduce dal trionfale The Millionaire, Danny Boyle ha scelto di raccontare la vera storia dell'alpinista Aron Ralston, costretto ad auto-amputarsi parte di un braccio durante un'escursione in Utah. Un'agonia lunga 127 ore, una croce portata dal regista inglese con lo stesso team creativo della trasferta indiana, compreso lo sceneggiatore Simon Beaufoy, mentre è il poliedrico e candidato all'Oscar James Franco a interpretare il one man show. Durante un'escursione al Canyonlands National Park dello Utah nel 2003, Ralston smosse accidentalmente un masso, che gli bloccò il braccio destro: dopo aver cercato invano di liberarsi, stremato e disidratato, decise di amputarsi l'arto per cercare salvezza. Boyle sceglie di rispettare questa storia di ordinaria lotta Uomo-Natura con simpatetica, dolente aderenza, a partire dall'uno contro uno tra Franco e la macchina da presa. Ma vi ricordate Buried? Anche qui il rischio claustrofobia è elevato e la prima persona (troppo) singolare rischia di venir meno all'incontro con il pubblico, pertanto, Boyle il volpone spinge il piede sull'acceleratore paradigmatico della sopravvivenza, facendo di Ralston un emulo leopardiano destinato a confrontarsi con una Madre Natura chiamata sfiga. Eppure, lo spirito d'avventura sconfina ampiamente nell'incoscienza: caro Aron, dire a qualcuno dove saresti andato era troppo? Non è una cima il ragazzone, ma la sua monca parabola rientra agevolmente in un filone survival caro a Boyle: sul sole ci aveva portato con Sunshine, ai confini del mondo con 28 giorni dopo, qui ci sprofonda in un canyon, con l'acqua che finisce, l'ombra a farla da padrone, una videocamera a far testamento,  e una macigno che pesa come tale sull'happy ending. Per scrollarcelo di dosso, il filamker intervalla il countdown "qui e ora" di Ralston a flashback più o meno onirici e allucinatori del suo passato – vengono pari pari dal libro di memorie scritto dallo stesso Aron - che non passa e ritorna prepotente ad attaccarlo ancora alla vita. Complice montaggio serrato se non parossistico e fotografia (iper)satura  - la firmano Anthony Dod Mantle ed Enrique Chediak –, Boyle scambia quello privato e intimo di Ralston per un diario collettivo, scritto con l'inchiostro dell'adrenalina, delle emozioni primarie e dell'istinto che tutto può, ma qualcosa – letteralmente, anzi, carnalmente - deve concedere. Pathos ad alto voltaggio, drammaturgia a effetto e solida attitudine al ricatto, tra le strette pareti di un canyon ritroviamo tutto il suo cinema: se Franco si immedesima con bravura, viceversa, Boyle conferma la perizia in regia, il solido mestiere e la straordinaria furbizia. Da quel canyon, scommettiamo, lui ne sarebbe uscito intero.

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