RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it

<i>Nader and Simin, a separation</i>

15 febbraio 2011

Nader and Simin, a separation

Agghiacciante ritratto di famiglia e della società iraniana. Farhadi, a lezione da Bergman, punta l'Orso

Non so se la contiguità con la bellissima retrospettiva su Bergman influenzerà il giudizio dei giurati certo è che il film di Asghar Farhadi deve molto al maestro svedese. Il paragone è ingombrante ma il grado di articolazione dei rapporti umani, l'abilità nella scrittura delle scene e l'efficacia dei dialoghi lo giustifica.Nader and Simin, a separation è un racconto a più livelli, dove la verità della scena è sempre un passo oltre ciò che appare. La richiesta del divorzio da parte di Simin nasconde quella che lei considera una mancanza d'attenzione del marito nei suoi riguardi; così come l'accusa di omicidio formulata dalla domestica a Nader, dopo che questi l'ha spinta provocandole (forse) un aborto, camuffa la paura che la stessa ha per il marito. Sebbene la giustizia sia spesso presente, è sull'idea della separazione e dell'incomunicabilità che Farhadi sceglie di sviluppare il suo racconto. Per tutto il film dissemina tracce: superfici riflettenti, vetri incrinati, un parabrezza rotto, fino alla bellissima immagine conclusiva che vede i due (ex)coniugi ai due lati di un corridoio, divisi da una parte a vetri (semiaperta) attendere la decisione della figlia. Soli e separati (dalle proprie paure o dall'orgoglio, dalle pressioni ideologiche e religiose, dalle condizioni economiche) sono gli uomini e le donne secondo Farhadi. Descrivendo con precisione la società iraniana, il regista traccia quella che potrebbe essere descritta una sorta di iniziazione alla menzogna - a questo vengono spinti pure i bambini dagli adulti. In questo agghiacciante ritratto di famiglia, dove nessuno riesce o può dire la verità, il personaggio simbolo è il padre di Nader, malato di Alzheimer, incacace di leggere la realtà e tuttavia attaccato all'idea di avere ogni giorno il giornale. Con il suo sguardo perso e il suo corpo indolente egli è non solo il "mac guffin" della storia, ma anche la metafora nella quale Farhadi avvolge la sua visione dell'umanità.

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