RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it
30 settembre 2010
La pecora nera
Tutto Ascanio Celestini, ma anche il cinema: per molti, non per tutti, l'opera prima in manicomio del cantastorie
Ragni e lucertole, bimbi infilzati sui cancelli e suore scoreggione, uova appena deposte e "i favolosi anni Sessanta", caffè omaggio e la morte di Giovanni Paolo II, fino ad arrivare al supermercato, nuovo teatro dell'assurdo e nuovo non luogo dell'alienazione.Approdando alla finzione su grande schermo, Ascanio Celestini non viene meno alla sua affabulazione, scatenando una surreale ironia al servizio della denuncia civile: senza scadere nella cronaca ideologica e nella tesi (troppo) politica, bensì facendo del suo Nicola, 35 anni di "manicomio elettrico" in testa, una sorta di stralunato e "matto" Virgilio nella sporcizia che nascondiamo sotto quel tappeto chiamato società.E' lui a portarci in quel "condominio di santi" che è il manicomio: "So' santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex-voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesucristo". Santi tutti, e santi subito, purché se ne rimangano al chiuso, dietro 99 cancelli, che Celestini (non) scavalca tra serio e faceto, riso e commozione, commedia e farsa, pamphlet e divertissement, appoggiandosi "sulla grande modalità tragica moderna" di cui scriveva Edoardo Sanguineti. Già spettacolo teatrale e libro, girato al Padiglione 18 del Santa Maria della Pietà, il manicomio di Roma, e nato dalla presa diretta con ex pazienti, La pecora nera è interpretato dallo stesso Celestini, Giorgio Tirabassi e Maya Sansa e splendidamente fotografato in digitale da Daniele Ciprì. E viaggia tra '75 e 2005, prendendo di mira le istituzioni e lo stigma sociale.Fin qui tutto bene, e chi ama Celestini, chi ama perdersi in una narrazione avvolgente, circolare e fiabesca potrà legittimamente spellarsi le mani. Viceversa, qualcuno lo troverà verboso, mal digerendo l'enfasi, le iterazioni, il "c'era una volta e c'è ancora" di un cantastorie che non si pente, che, anzi, rimane (troppo?) fedele a se stesso. Celestini è doc, il film sinceramente adulterato dalla sua affabulazione. Croce e delizia, dunque, ma di più la seconda: il passaggio in concorso a Venezia ci stava tutto, il cinema anche. Perché è una Pecora nera folle non solo di nome, ma di fatto.
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