Grand Budapest Hotel2014

SCHEDA FILM

Grand Budapest Hotel

Anno: 2014 Durata: 100 Origine: GERMANIA Colore: C

Genere:COMMEDIA, DRAMMATICO

Regia:Wes Anderson

Specifiche tecniche:ARRICAM ST, 35 MM/DCP (1:2.35)

Tratto da:ispirato ai racconti di Stefan Zweig

Produzione:WES ANDERSON, SCOTT RUDIN, STEVEN RALES, JEREMY DAWSON PER AMERICAN EMPIRICAL PICTURES, INDIAN PAINTBRUSH, SCOTT RUDIN PRODUCTIONS, STUDIO BABELSBERG

Distribuzione:20TH CENTURY FOX ITALIA

ATTORI

Ralph Fiennes nel ruolo di Gustave H
Tony Revolori nel ruolo di Zero
F. Murray Abraham nel ruolo di Mr. Moustafa
Mathieu Amalric nel ruolo di Serge X.
Adrien Brody nel ruolo di Dmitri
Willem Dafoe nel ruolo di Jopling
Jeff Goldblum nel ruolo di Deputato Kovacs
Harvey Keitel nel ruolo di Ludwig
Jude Law nel ruolo di Giovane scrittore
Bill Murray nel ruolo di M. Ivan
Edward Norton nel ruolo di Henckels
Saoirse Ronan nel ruolo di Agatha
Jason Schwartzman nel ruolo di M. Jean
Léa Seydoux nel ruolo di Clotilde
Tilda Swinton nel ruolo di Madame D.
Tom Wilkinson nel ruolo di L'autore
Owen Wilson nel ruolo di M. Chuck
Larry Pine nel ruolo di Mr. Mosher
Giselda Volodi nel ruolo di Sorella di Serge
Florian Lukas nel ruolo di Pinky
Karl Markovics nel ruolo di Wolf
Volker Zack Michalowski nel ruolo di Günther
Neal Huff nel ruolo di Tenente
Bob Balaban nel ruolo di M. Martin
Fisher Stevens nel ruolo di M. Robin
Wallace Wolodarsky nel ruolo di M. Georges
Waris Ahluwalia nel ruolo di M. Dino
Angela Lansbury
Daniel Steiner nel ruolo di Anatole
Gabriel Rush nel ruolo di Otto
Hendrik von Bültzingslöwen nel ruolo di Ernst
Johnny Depp
Milton Welsh nel ruolo di Caporale Franz Müller
Paul Schlase nel ruolo di Igor
Rainer Reiners nel ruolo di Mendl
Sabine Urig nel ruolo di Laetizia
 

SCENEGGIATORE

Anderson, Wes
 
 

MONTAGGIO

Pilling, Barney
 

SCENOGRAFIA

Stockhausen, Adam
 

COSTUMISTA

Canonero, Milena
 

TRAMA

Sullo sfondo dell'omicidio di una nobile dama e del furto di un dipinto di inestimabile valore, si svolgono le (dis)avventure di Gustave H, perfetto concierge dell'hotel "Grand Budapest", un lussuoso albergo situato tra le Alpi dello Stato di Zubrowka, e dell'amicizia che lo lega a Zero Moustafa, il giovane fattorino che diventerà suo protetto e amico più fidato.

CRITICA

"La recitazione, la regia e la scrittura rendono il film (dedicato a Stefan Zweig, scrittore austriaco pacifista degli anni '30) un capolavoro di fantasia. Wes Anderson, con uno stile vivace e surreale, attraverso la storia particolare di Gustave e dell'albergo ritrae un secolo di storia e di Europa. Decadente e affascinante come il Grand Hotel Budapest." (Chiara Pelizzoni, 'Famiglia Cristiana', 22 giugno 2014) "All'ottavo round, il 45enne Wes Anderson, uno dei pochi registi impossibili da imprigionare in un aggettivo, firma il suo film più personale e fiabesco, colto e snob, raffinato e ironico verso i generi stessi del cinema, dalla commedia sofisticata di Lubitsch e soci (Wyler, Mamoulian, Bornage, Wilder...) nell'ovattato clima di un grand hotel d'operetta fino alla spy story. Commedia mitteleuropea, ambientata nello stupore Art Nouveau anni 30, flash back biografico del padrone di un hotel glorioso ora decaduto in quel crocevia di mondo al confine di Germania, Austria e Polonia, tra le due guerre mondiali, luogo immaginario chiamato Zubrowka, in realtà la cittadina di Gorlitn con interni a Potsdam. (...) In un incrocio ideale non solo di storia e geografia ma anche di cultura, colore e grafica, con mutazioni di formato dello schermo, ironia e senso favolistico ma sempre con la finzione super star, Anderson brucia a fiamma altissima la sua idea di cinema fulcro di periodi e sentimenti, sogni e incubi. Come in un giro dell'oca solo per adepti, Anderson iscrive nella sua famiglia ideale (Tanenbaum allargati) molti attori feticci, una compagnia ricchissima di tic, talenti e personalità radical chic al comando di Murray Abraham, Ralph Fiennes, Jude Law che ci portano in giro nel Tempo del Bon Ton. Ma sono indispensabili anche Bill Murray, Edward Norton, Adrien Brody, Willem Dafoe, Jeff Goldblum, il picassiano Owen Wilson e Tilda Swinton, mentre Saoirse Ronan e Tony Revolori si assumono il peso delle rivelazioni, i minorenni in una fiaba di adulti che volentieri retrocedono allo psico gioco per bambini mai così sicuri che la vita è sogno." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 10 aprile 2014) "S'intitola 'Grand Budapest Hotel' l'ennesimo sogno anticato-cinéfilo di Wes Anderson, uno degli autori più meravigliosamente disimpegnati del panorama contemporaneo. Se si è in grado di rinunciare al sostegno di una storia scritta e diretta con ogni bullone al suo posto, quest'ora e quaranta di stravaganti schermaglie comunicano, infatti, un'euforia di rara eleganza, particolari toni di sensibilità surrealista e soprattutto il gusto di quel voluto artificio che stava alla base dell'ingresso in una sala cinematografica. È notorio come l'albergo sia stato da sempre un luogo d'elezione per i voyeur con la cinepresa, tanto è vero che ogni cinefilo potrebbe farsi la propria classifica scorrendo l'interminabile elenco che va da 'Grand Hotel' a 'L'anno scorso a Marienbad', da 'Barton Fink' a 'Pretty Woman': il texano meno texano che si possa immaginare Wes, però, insegue da sempre un 'altrove' favolistico privato in cui potere spostare a piacimento le sue stralunate persone/pedine su scacchiere sociali e familiari altrettanto imprevedibili. Così accade in questa chicca per affezionati, strappata alla sua spontanea ritrosia dal Gran Premio della Giuria all'ultimo festival di Berlino (...) Non si contano i personaggi bizzarri, misteriosi, commoventi, sfuggenti che sembrano prendere per mano lo spettatore per raccontargli tutto e poi lo abbandonano nelle braccia del narratore seguente; tanto è vero che ne scaturisce una passerella interminabile d'interpreti (Fiennes, Law e Murray Abraham in testa) celebri, però ligi allo spazio che gli è concesso. Ci sarebbero anche i fatti tra il giallo, il noir e il rocambolesco, ma non è certo in questi passaggi un tantino slabbrati che si può trovare conferma del talento da operetta dell'ineffabile Anderson." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 10 aprile 2014) "Ah, che bel film. Una commedia tra favola e operetta, scritta e diretta da un Wes Anderson in gran forma, che viaggia a ritroso nel tempo, inventando cinema a ogni cambio di scena. (...) la storia non ha importanza, di fronte al fascino di colori, costumi e di un raffinatissimo umorismo." (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 10 aprile 2014) "Piacerà agli ammiratori (da sempre) di Anderson ('Tenenbaum'). E dei suoi personaggi spesso strampalati, tutti perdenti, tutti in ritardo (o in anticipo) rispetto al tempo dove sono costretti a vivere. Ma anche chi non è sfegatato fan di Wes, riconoscerà che qui ha fatto un gran bel lavoro di regia. 'Grand hotel' è uno splendido commedione, dove tanti personaggi vanno e vengono, ma nessuno è sciatto, nessuno è superfluo. Nell'all star cast spicca Bill Murray che con la Mitteleuropa non c'entra nulla, ma come strampalato è difficilmente raggiungibile." (Giorgio Carbone, 'Libero', 10 aprile 2014) "A vedere 'Grand Budapest Hotel', lasciandosi incantare dalle sue assurdità, viene voglia di pensare che un autore dalla cifra personale e inimitabile è quello che se avesse sottoposto a chiunque un progetto come questo, quando ancora non era famoso, sarebbe stato trattato come un eccentrico svitato, accompagnato alla porta e invitato a cambiare strada. Nella peggiore delle ipotesi, sbattuto fuori a calci assieme alla sua strampalata sceneggiatura con l'intimazione di non farsi vedere mai più. Siamo davanti al miracolo della creazione di una cosa che prima non c'era, prodotta dalla fantasia eccezionale di un artista. (...) Nessuno degli aggettivi che salgono spontanei nel vedere il film è inappropriato: delizioso, squisito. Garbo e grazia sono di casa. Profilo non nuovo per l'autore di 'Moonrise Kingdom' e 'Fantastic Mr. Fox'. Tuttavia qui la consistenza di monumento all'inconsistenza, al superfluo, surclassa caratteristiche già largamente espresse nei precedenti 'Il treno per Darjeeling' e 'Le avventure acquatiche di Steve Zissou'. Mentre, senza perdere in leggerezza, ci si riavvicina alla solidità del primo exploit, 'I Tenenbaum'. I luoghi, i tempi, i modi. La storia violenta del Novecento europeo, filtrata da una sensibilità, da una modalità, da una vaghezza un po' da operetta un po' da feuilleton. Nel gusto, nello stile che Anderson riversa in quest'opera è difficile sfuggire alla tentazione di riconoscere un devoto tributo - non banale citazionismo - al più grande degli inconsistenti, il Lubitsch di 'To Be or Not to Be' ('Vogliamo vivere'). Non senza soffermarci sulla ricchezza e sulla cura di questo lussureggiante giocattolo - oggetti, colori, scenografie da favola di cui sarebbe interessante poter discernere tra artificio e location reali, tra modellini e aiuto tecnologico - un capitolo a sé è la passerella dei personaggi/interpreti. (...) Ciascuno con ben incisi i caratteri del Grande Romanzo. E ciascuno portatore dell'invisibile ma percettibile sorriso - anche i perfidi - di chi sente il privilegio di partecipare a una festa. Resta il mistero del perché un autore che del tenue e dell'esile ha fatto la sua cifra, emisfero opposto rispetto a Tarantino, si sia imposto tra i giovani come un fenomeno super cool. Interrogativo stimolante." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 7 aprile 2014) "Con un giallo raccontato come una commedia (e un dramma raccontato come una favola) Wes Anderson ha inaugurato con i suoi colori pastello questa 64esima Berlinale. Il suo 'The Grand Budapest Hotel' sembra uno dei dolci che prepara nel film la dolce Agatha (Saoirse Ronan) dove panne, spumoni e variopinte meringhe si impilano sostenuti da un miracoloso equilibrio. Anche il suo film mescola elementi eterogenei, dai formati di proiezione-panoramico per le scene ambientate oggi, wide screen (più stretto e lungo, tipo CinemaScope) per quelle negli anni Sessanta e il classico Academy (quasi quadrato) per gli anni Venti e Trenta - alle epoche temporali ai riferimenti storici, per costruire un mondo che sappia coniugare il piacere della fantasia e l'ambizione del racconto morale (ispirato agli scritti di Stefan Zweig). Al centro di tutto, a fare da calamita e insieme motore, la figura di Gustave H. (Ralph Fiennes), leggendario concierge del Budapest Hotel nell'immaginario stato europeo di Zubrowka, depositario dei segreti e dei desideri dei ricchi ospiti dell'albergo, soprattutto di sesso femminile. Al suo fianco, apprendista e insieme protégé, il fattorino Zero (Tony Revolori), senza famiglia e identità, che seguirà e aiuterà Gustave nel momento più difficile della sua vita, quando verrà accusato di aver avvelenato la facoltosa Madame D. (una Tilda Swinton quasi irriconoscibile sotto una turrita e candida parrucca), per impossessarsi di un suo prezioso quadro. L'ambizione dichiarata di Anderson era quella di ritrovare la leggerezza e la grazia delle commedie «alla Lubitsch», dove le più sorprendenti delle situazioni sapevano affascinare e divertire nonostante la loro dichiarata falsità. Operazione rischiosa e complicata che Anderson non sempre riesce a controllare perfettamente. Dalla sua (e del suo cosceneggiatore Hugo Guinness) ci sono le continue invenzioni narrative che prendono la forma (e il volto) di personaggi inaspettati (Harvey Keitel calvo e tatuato detenuto, Bill Murray baffuto membro del «club delle chiavi incrociate», Willem Dafoe sadico killer paranazista). Ci sono le improbabili ma divertenti location, tra piste di bob e salvifici conventi. E c'è il piacere tutto estetico dei colori saturi e delle scenografie trompe l'oeil. Ma alla fine la storia rischia di girare a vuoto. O meglio: non riesce a trovare quella forza e quella necessità che nei film di Lubitsch sapevano trasformare lo stile in qualcosa capace di parlare al cuore e all'intelligenza insieme." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 7 febbraio 2014) "Un paese che non esiste, una specie di Mitteleuropa a fumetti sognata dal regista dei 'Tenenbaum' nel suo stile sgargiante e inconfondibile. Un racconto a scatole cinesi che inizia ai giorni nostri e torna fino agli anni 30, perché anche se il tono è lieve, i colori accesi, le star innumerevoli, questa favola piena di humour e di azione parla di memoria, di trasmissione del sapere, insomma di eredità. Un film dal tono volutamente infantile, ma chiazzato di sesso e di morte, come se solo così il texano Wes Anderson potesse appropriarsi dei lati più oscuri di un'epoca che come i tre quarti del pubblico di oggi conosce solo grazie a libri, film, foto, disegni. Se la Berlinale cercava un lavoro divertente e pensoso, frivolo e malinconico, in bilico fra due epoche e due mondi, 'The Grand Budapest Hotel' era il titolo ideale per aprire un festival che come il mondo oggi guarda a Oriente, ma non può dimenticare la propria storia. E poi questa favola di Anderson, girata tra gli studios berlinesi di Babelsberg e le architetture gotiche di Gorlitz, è un trionfo di invenzioni e divertimento che sospende ogni cosa, a partire dall'immaginaria repubblica di Zubrowska, nel regno della fantasia. Ma senza mai dimenticare la realtà: dopo i fasti della Belle Epoque quell'immenso albergo termale sospeso tra i picchi dei Sudeti ha conosciuto le offese della guerra, le ingiurie del nazismo, il grigiore del socialismo reale. Ma ha anche visto le avventure del tenero Gustave (Ralph Fiennes), maître d'hotel sempre impeccabile e molto disponibile con le clienti più attempate, dunque nominato erede universale da una contessa devota e decrepita (un'irriconoscibile Tilda Swinton). (...) In un crescendo di avventure, stramberie, invenzioni visive, che incanterà chi ama il regista di 'Moonrise Kingdom' e 'Fantastic Mr. Fox'. Ed ecco, fra inseguimenti di ogni sorta (auto, treni, moto, sci, slitte, funivie), confraternite internazionali di maître d'hotel, complotti e delitti sempre compiuti con massima eleganza e velocità, affacciarsi un plotone di divi, in ruoli anche piccolissimi ma tutti da assaporare, come i pasticcini confezionati dalla candida Saoirse Ronan, così belli e inviolabili che servono a introdurre in carcere ferri da evasione. Mentre tutto intorno, truccati e avvolti nei costumi inarrivabili di Milena Canonero, sfilano per il nostro divertimento Willem Dafoe protonazi con ghigno da uomo lupo, Jeff Goldblum avvocato azzimato, Adrien Brody avido erede, Edward Norton sbirro sensibile, Harvey Ketitel galeotto pelato e tatuato. Tutti sospesi allo sguardo innocente di un debuttante assoluto, il giovanissimo lobby boy Tony Revolori, che da vecchio diventerà F. Murray Abraham. Una festa." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 7 febbraio 2014) "Una favola appassionante, che Wes Anderson (...) racconta nel suo stile originale e personalissimo, giocando con i modi del cinema, della letteratura e del fumetto, senza mai perdere ironia e leggerezza, con ritmo ed equilibrio miracolosi (...) mescolando contaminazioni letterarie e citazioni cinematografiche, da 'Vogliamo vivere!' di Ernst Lubitsch a 'Grand Hotel' di Edmound Goulding, a 'Love Me Tonight' di Rouben Mamoulian, Anderson ambienta, nell'immaginaria regione alpina di Zubrowka, tra il lusso decadente dell'albergo dove Gustave H presta servizio e i panorami innevati di un est europeo dove niente è come sembra, un giallo popolato da grandi attori che hanno accettato anche ruoli minuscoli, ma cruciali, con un gusto che contagia l'intera pellicola." (Fulvia Caprara, 'La Stampa', 7 febbraio 2014) "Il regista di 'I Tennenbaum' e 'Il treno per il Darjeeling' ha portato al Filmfest di Berlino il suo nuovo film 'The Great Budapest Hotel'. È il titolo d'apertura, una scelta importante. (...) Wes Anderson è un regista appartato e personalissimo, uno dei pochi artisti che il cinema americano possa consapevolmente chiamare tali. Ma ha una particolarità che lo fa benvolere anche a Hollywood: riesce sempre ad attirare, con la sola forza dei suoi copioni e del suo stile, attori di gran nome anche in ruoli molto piccoli. (...) 'The Grand Budapest Hotel' si svolge nella Mitteleuropa del 1932, nell'immaginario staterello della Zubrowka - che corrisponde un po' alla Brubruzia di una celebre storia di Topolino, o alla Freedonia dei fratelli Marx - e nel grande albergo del titolo, che sorge in cima a un picco amabilmente disegnato come nelle stampe degli anni '20. E' tutto adorabilmente finto in 'The Grand Budapest Hotel', e diciamo subito che il film dimostra inequivocabilmente come gli effetti digitali possano essere amabilmente rétro se messi al servizio di una fantasia lussureggiante come quella di Wes Anderson. In altri tempi, il film sarebbe stato un'operetta. Oggi è il viaggio surreale nelle memorie di un portiere d'albergo che ha visto passare davanti a sé la Storia e le storie di tanti piccoli personaggi. C'è molta fantasia, c'è un tono narrativo alla Cavallino bianco, ma c'è anche un sottofondo serio: la trama si ispira a motivi ricorrenti nelle opere di Stefan Zweig e da un certo punto in poi gli eserciti cattivi che si impadroniscono dell'hotel e della Zubrowka hanno un simbolo che ricorda abbastanza da vicino la swastika hitleriana (anche nel Grande dittatore di Chaplin, ricorderete, la grafica nazista era solo evocata, ma in modo inequivocabile). Oltre che a Zweig, Anderson si è ispirato a una vera e propria biblioteca di film che snocciola senza ritrosia: «'Grand Hotel', tutto Lubitsch - in particolare 'Vogliamo vivere' e 'Scrivimi fermoposta' -, 'Love Me Tonight' di Mamoulian, 'Il silenzio' di Bergman che era ambientato in un paese immaginario, 'The Mortal Storm' di Borzage con il grande Frank Morgan. Budapest è una suggestione, non una citazione. Avevamo anche accarezzato l'idea di girare in Ungheria, poi abbiamo trovato tutte le strutture necessarie negli studi di Babelsberg, qui in Germania. Ma Budapest è rimasta nel titolo, un Grand Hotel Budapest suona bene come un Hotel de Paris o un Cafè New York, che per inciso a Budapest esiste». Già, Babelsberg: è il legame che rende 'The Grand Budapest Hotel' un film «anche» tedesco, e che forse spiega l'anteprima berlinese. Un film con un simile cast avrebbe potuto giocarsi la carta-Cannes, ma evidentemente il supporto produttivo tedesco ha pesato sulla scelta." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 7 febbraio 2014) "La principale qualità del cinema di Wes Anderson, regista 'di culto' ('I Tennenbaum', 'Le avventure acquatiche di Steve Zissou', 'Fantastic Mr. Foxe', 'Moonrise Kingdom'), è quella di saper creare dei ricchissimi mondi a parte e altrove, visionari e un po' fiabeschi, spesso surreali, in cui si muovono personaggi stralunati e fragili, radunati in famiglie decisamente eccentriche. Mondi dove è bello entrare e girovagare. Addirittura ad Halloween molti americani si travestono come le creature da lui inventate (e spesso abbigliate dalla nostra Milena Canonero). La preziosa qualità di cui dicevamo non manca neppure al suo ultimo lavoro, 'The Grand Budapest Hotel' che (...) ha inaugurato la 64esima edizione del Festival di Berlino (...). Ambientato per lo più all'inizio degli anni Trenta in una Europa dell'Est frutto di invenzione (siamo nella fittizia Lutz, nella regione di Zubrovka, ma in realtà si è girato a Görlitz, in Sassonia, al confine tra Germania e Polonia) con incursioni nel 1968 e nel 1985, il film racconta la vita del concierge di un albergo, noto per stile, eleganza e un inconfondibile profumo, l'Air du Panache, ingiustamente accusato dell'omicidio di un'anziana signora che gli ha lasciato in eredità un prezioso dipinto. (...) «Il film è ispirato ai libri di Stefan Zweig, giornalista, drammaturgo e poeta austriaco - spiega il regista - soprattutto alle sue memorie che ci riportano a un mondo scomparso. Quando ho scoperto Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo me ne sono innamorato e ho letto molto altro di lui. Con 'The Grand Budapest Hotel' ho voluto realizzare la mia versione di quei racconti, utilizzandone non le storie, ma le atmosfere». Nel film ci sono anche molti riferimenti cinematografici, che Anderson non fatica a rivelare. «Ho chiesto a troupe e attori di guadare i film di Lubitsch, soprattutto 'Vogliamo vivere!', ma anche 'Grand Hotel' di Goulding, 'Amami stanotte' di Mamoulian, 'The Good Fairy' di Sturgess. E poi Ophuls e Renoir. Per non parlare di Kubrick, un maestro assoluto, che ammiro non solo per ciò che è stato capace di mettere in scena, ma per un metodo di lavoro elaborato e sviluppato per anni»." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 7 febbraio 2014) "La passione di Wes Anderson per le case di bambola con tanti personaggi dentro - tutti attori che per amor suo accettano paghe al minimo sindacale, qui se ne contano almeno sedici - trova nel grande albergo di inizio Novecento un nuovo terreno di gioco. Mancava alla collezione, che oltre a varie civili abitazioni già vanta la nave dell'oceanografo Steve Zissou e gli scompartimenti del 'Treno per il Darjeeling'. Stavolta, come nelle operette e nei film di Ernst Lubitsch, costruisce attorno al Grand Budapest Hotel (modernissimo e già dotato di spa, che allora si chiamavano terme e avevano le piastrelline bianche e azzurre) un'intera Ruritania. Insomma, un immaginario staterello dell'est Europa - comparso con quel nome per la prima volta nel 'Prigioniero di Zenda' di Anthony Hope, rispunterà in 'Corpi vili' di Evelyn Waugh - atto ad ambientarvi storie d'amore e di avventura. Un passaggio alla Berlinale (...) era un atto dovuto. La Ruritania qui si chiama Repubblica di Zubrowka. Oltre al grande albergo pitturato in rosa confetto (verrebbe voglia ogni tanto di allungare la mano per controllare se i cornicioni sono di zucchero come sembrano), ha una pasticceria, un carcere con divise a righe, treni variamente sorvegliati perché siamo tra la prima e la seconda guerra mondiale. Un monastero, sul cocuzzolo di una montagna, farà da sfondo a una delle sequenze più movimentate, il cattivo sugli sci e gli inseguitori con lo slittino. Le signore ricche vengono coccolate dal concierge Ralph Fiennes, che conosce ogni segreto del mestiere. Tra loro c'è Tilda Swinton, ottantenne pettinata come Marge Simpson (o come Elsa Lanchester in 'La moglie di Frankenstein', tranne che per la ciocca bianca). La sua morte improvvisa, e un testamento corredato da una scatola di emendamenti, danno il via alla storia. 'Gente che va e gente che viene', come nel 'Grand Hotel' diretto nel 1932 da Edmund Goulding, con Greta Garbo che si innamora del ladro gentiluomo entrato in camera sua per derubarla. È chiaro che Wes Anderson non aveva in mente soltanto 'Il mondo di ieri' e i racconti di Stefan Zweig quando ha scritto il copione. Ed è chiaro che l'albergo - bomboniera fuori e dentro coloratissimo, uno splendore di rosso e oro e prugna per le divise - era un luogo perfetto per farci vivere uno sveglio ragazzino, che nei film del regista (texano, anche se si veste con velluti rigati e Clarks da intellettuale parigino) non mancano mai. (...) le inquadrature dall'alto, le simmetrie, le composizioni da fumetto, i campi lunghi, i dialoghi anti realistici, le gag in controtempo. E i bagagli, i pacchetti, le lettere scritte in corsivo sullo schermo, le riprese da dietro una finestra. Lo amiamo per questo: ha uno stile riconoscibile fin dai titoli di testa, ora con una piccola modifica. In 'The Grand Budapest Hotel' sembra avere definitivamente dato l'addio al carattere tipografico Futura (già tradito in 'Moonrise Kingdom')." (Mariarosa Mancuso, 'Il Foglio', 7 febbraio 2014) "Sembra una trama da thriller, in realtà il mistero è solo un pretesto per imbastire una colorata e divertente commedia dai toni e dai dialoghi surreali tipica del cinema del regista texano. «La sceneggiatura è originale, ma il film è ispirato alle ambientazioni e ai libri di Stefan Zweig. È strano pensare come negli Stati Uniti fino a qualche anno fa fosse poco più di uno sconosciuto, solo da otto anni hanno ricominciato a pubblicarlo, mentre in Europa sia considerato tra i più grandi scrittori del ventesimo secolo. Delle tante cose che scrisse ce ne è una che tengo sempre a mente: che quando in giro si sa che sei uno scrittore, è la gente che porta le storie da te. Mi succede tuttora». Il resto del cast è ricchissimo: Jude Law, Jeff Goldblum, Edward Norton, Willem Dafoe, Saoirse Ronane Bill Murray, ormai da considerare attore feticcio del cinema di Anderson con cui ha collaborato per la settima volta consecutiva. (...) Per creare la giusta atmosfera sul set Anderson ha rivelato di aver organizzato visioni collettive dei film di Ernst Lubitsch." (Andrea D'addio, 'La Repubblica', 7 febbraio 2014) "C'è gente che verrebbe al Festival di Berlino anche a pulire le sale. 'Se Dieter Kosslick me lo chiedesse'. A dirlo non è il berlinese della porta accanto smanioso di una qualche notorietà. La dichiarazione arriva da quella vera lady inglese, anzi scozzese, che porta il nome di Tilda Swinton. Una frase che dall'alto della nobiltà e professionalità di chi l'ha pronunciata rasenta il grottesco, eppure il tono della voce è serio, appena velato dall'ironia British che - imprescindibile - regala quell'attributo aggiunto agli artisti di Sua Maestà. Ma Berlino fa quest'effetto, a chiunque e a quanto pare. (..) Accanto all'attrice siedono tali top name del cinema internazionale contemporaneo che basterebbero a un intero festival di media portata per soddisfare i propri sponsor. Bill Murray, Ralph Fiennes, Willem Dafoe, Edward Norton, Jeff Goldblum solo per citare i più pop, accorsi a promuovere il regista Wes Anderson che li ha riuniti in un colpo solo, anzi, in un solo hotel. Tipico per questo quasi 45enne cineasta texano, originale mago di leggerezza, oggi forte di otto opere corali in filmografia tutte ampiamente osannate da critica, pubblico e festival. L'avevamo lasciato nei Sixties americani con due ragazzini in fuga d'amore in 'Moonrise Kingdom', oggi lo ritroviamo a gestire la bizzarra vicenda liberamente ispiratagli da letture di Stefan Zweig di Gustave H., il capo-congierge (Ralph Fiennes) venuto da nowhere ma di fissa dimora a un grand hotel termale nel fatiscente Zubrowka, paese dell'Est europeo agli albori della Seconda guerra mondiale. Attorno a lui una vicenda d'indagine semi-seria che coinvolge molto buoni & molto cattivi, come è ovvio che sia dentro all'estetica surrealista di cui Anderson è tra i portavoce più vivaci. Se inconfondibile e a tratti manieristica può apparire la cifra stilistica di Anderson - al punto che si può dire faccia sempre lo stesso film diversamente declinato - di una cosa si può andare certi, gli attori lo adorano. Passi la berlinofilia della Swinton, la vera ragione perché un cast come quello di ieri sia accorso nella capitale tedesca è per omaggiare il 'loro' Wes Anderson." (Anna Maria Pasetti, 'Il fatto Quotidiano', 7 febbraio 2014) "(...) affresco corale sullo sfondo di un grande albergo di Lutz, in cui torna quasi per intero la famiglia del regista: intorno a Ralph Fiennes ruotano tra gli altri Tilda Swinton, Bill Murray, Edward Norton, Owen Wilson, Lea Seydoux. Ambientato negli anni tra le due guerre, narra intrighi e vicende intorno al furto di un inestimabile quadro rinascimentale. Apertura americana, all'insegna delle star, con il grande omaggio al cinema di Lubitsch e alle atmosfere da operetta degli anni '20, con un film che si svolge nell'immaginario stato alpino della Zubrowka. Incisiva la presenza di Bill Murray, che è una presenza fissa in quasi tutti i film di Anderson e si conferma anche stavolta un attore straordinario." (Dina D'Isa, 'Il Tempo', 7 febbraio 2014) "Ha un cuore nero l'ultima fiaba di Wes Anderson. L'atteso "The Grand Budapest Hotel" (...) con cui si è aperta ieri sera la sessantaquattresima Berlinale è un affresco come al solito colorato e ironico il cui disegno non nasconde però questa volta venature melanconiche. Non potrebbe essere diversamente visto che la suggestione a questo racconto è venuta al regista giovane americano (" I Tenenbaum , "Moonrise Kingdom") dal narratore austriaco Stephen Zweig. (...) al centro della vicenda ingarbugliata, come si conviene a una favola, che è anche un racconto morale su amicizia, onore e promesse mantenute, vi è un maître di un hotel di gran lusso, premuroso, meticoloso ma anche vanesio e permaloso. (...) Come d'uso a Hollywood il luogo immaginario di questa simil Europa tra le due guerre è un paese inventato che ha le sembianze di uno stato, un po' di burletta e un po' vero (vedasi l'ascesa di un nazismo risolta in chiave coreografica), posto in un ideale cuore del vecchio continente. Il grande albergo, monumentale struttura gotico-barocca issato sul cucuzzolo di una montagna, accessibile solo con cremagliera è il rifugio di eccentrici e ricchi, di signore impellicciate e di estrosi miliardari. La tela di fondo richiama pellicole note, Lubitsch su tutti, ma anche musicali come "Amami stanotte" e romantiche come "Rendez-vous"; ma a Wes Anderson la citazione cinefilica non interessa poi tanto: preferisce la cura scenografica maniacale e il tocco impertinente dei colori. (...) Ma Gustav non è solo: accanto a lui il fedele bell-boy Zero Mustafa (un imprevedibile attore guatemalteco, Tony Revolori) destinato, partendo dal ruolo più basso a divenire, naturalmente un giorno lontano, suo erede. Le disavventure di questa coppia prevedono evasioni, travestimenti e altre godibilissime avventure in puro stile Anderson. Che sono raccontate, come si conviene a una fiaba, in un lunghissimo flash-back dal vecchio Zero (Murray Abraham) a un giovane scrittore (Jude Law). Comunque nel circo personale di Anderson c'è posto per tutti gli amici: da Willem Dafoe a Adrien Brody, da Harvey Keitel a Bill Murray (...), tutti pronti a ripagarlo con il loro talento." (Andrea Martini, 'Nazione-Carlino-Giorno', 7 febbraio 2014)

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