Il padre2014

SCHEDA FILM

Il padre

Anno: 2014 Durata: 138 Origine: GERMANIA Colore: C

Genere:DRAMMATICO

Regia:Fatih Akin

Specifiche tecniche:DCP/35 MM, CINEMASCOPE

Tratto da:-

Produzione:BOMBERO INTERNATIONAL, IN COPRODUZIONE CON PYRAMIDE PRODUCTIONS, PANDORA FILMPRODUKTION, CORAZÓN INTERNATIONAL, NDR, ARD DEGETO, FRANCE 3 CINÉMA, DORJE FILM, BIM DISTRIBUZIONE, MARS MEDIA ENTERTAINMENT, OPUS FILM, JORDAN FILMS, ANADOLU KÜLTÜR, PANFILM

Distribuzione:BIM (2015)

ATTORI

Tahar Rahim nel ruolo di Nazaret Manoogian
Sevan Stephan nel ruolo di Barone Boghos
Shubham Saraf nel ruolo di Levon
Dina Fakhoury nel ruolo di Lucinée Manoogian
Kevork Malikian nel ruolo di Hagob Nakashian
Zein Fakhoury nel ruolo di Arsinée Manoogian
Andrea Hessayon nel ruolo di Sig.ra Balakian
Hindi Zahra nel ruolo di Rakel
George Georgiou nel ruolo di Vahan
Akin Gazi nel ruolo di Hrant
Arévik Martirossian nel ruolo di Ani
Hatun Kazci nel ruolo di Delal
Bartu Küçükçaglayan nel ruolo di Mehmet
Feridun Koç nel ruolo di Dursun
Makram Khoury nel ruolo di Omar Nasreddin
Kevork Umezian nel ruolo di Ali
Kiram Umezian nel ruolo di Riza
Simon Abkarian nel ruolo di Krikor
Anna Savva nel ruolo di Sig.ra Krikorian
Kevork Malikyan nel ruolo di Hagob Nakashian
Arsinée Khanjian nel ruolo di Sig.ra Nakashian
Carlos Riverón nel ruolo di Todd
Carlos Calero nel ruolo di Alvin
Moritz Bleibtreu nel ruolo di Peter Edelman
Joel Jackshaw nel ruolo di Tom
Dustin MacDougall nel ruolo di Henry
Alejandro Rae nel ruolo di Danny
Badasar Calbiyik nel ruolo di Arman
Lara Heller nel ruolo di Lucinée e Arsinée Manoogian
Numan Açar nel ruolo di Manuel
Trine Dyrholm nel ruolo di Direttrice orfanotrofio
 

SCENEGGIATORE

Akin, Fatih
Martin, Mardik
 
 

MONTAGGIO

Bird, Andrew
 

SCENOGRAFIA

Starski, Allan
 

COSTUMISTA

Aschendorf, Katrin
 

EFFETTI

ScanlineVFX

TRAMA

Nel 1915, a Mardin, la polizia turca rastrella i giovani armeni. Tra loro c'è anche il fabbro Nazareth Manoogian, che viene separato così dalla sua famiglia. Il fabbro riesce a sopravvivere al genocidio e, dopo aver scoperto che le sue figlie gemelle sono ancora vive, decide di mettersi sulle loro tracce. La sua ricerca lo porterà nei deserti della Mesopotamia, dall'Havana al Nord Dakota. Lungo il suo cammino conoscerà diverse persone, sia figure angeliche sia incarnazioni demoniache.

CRITICA

"Kolossal di sconnessa convenzionalità e pesantezza di un autore una volta capace di originali risultati (...) combinando il melodramma di diaspora al road-movie con smisurata fiducia negli spazi del grande schermo invece che in una sceneggiatura motivata. Sfiancante già a metà, potrebbe però piacere proprio per la sua vistosa fiction melodrammatica di spazi e continenti, culture e vessazioni, con carichi su carichi di avventura e coincidenze. C'è anche il 'Monello' di Chaplin." (Silvio Danese, 'Nazione - Carlino - Giorno', 10 aprile 2015) "Tradendo in parte la sua poetica, pur affrontando l'emozione per direttissima della strage degli armeni, Fatih Akin, conosciuto con la 'Sposa turca' e 'Soul Kitchen' si converte, ma con un certo imbarazzo, alla mega produzione storica stile David Lean, con le piccole storie che fanno capolino (prologo, tre atti ed epilogo) dove ci sta anche quel 'Monello' di Charlot. (...) Pur accompagnato nella scrittura da Mardik Martin, sceneggiatore del miglior Scorsese, il regista perde il ritmo anomalo e saltellante e resta imprigionato nell'ossessione del protagonista finché il melodramma sfiora il ridicolo. Uno spettacolone, si diceva una volta, ma qualcosa in cui, tra colori, smorfie e gran caratteri, l'anima affiora poco e si compiace dei lati grand guignol, declinato dalla Turchia della I guerra mondiale al North Dakota, ma anche l'epica del viaggio è solo un falso movimento." (Maurizio Porro, ' Corriere della Sera', 9 aprile 2015) "(...) mega-coproduzione internazionale, il concorso in sceneggiatura di Mardik Martin (screenwriter di Martin Scorsese), l'ottima direzione della fotografia di Rainer Klausmann e Tahar Rahim ('II profeta') come protagonista. Eppure tutto questo ha prodotto un film, nel complesso, deludente. (...) Ci sono varie metafore nel 'Padre', a partire dal titolo originale: 'The Cut', con allusione al crudele «taglio» delle vite operato dalla strage, ma anche a quello della gola del protagonista, il cui mutismo è chiaramente simbolico. Però l'aspetto predominante è da kolossal vecchio stile: il genere di film che «si racconta da sé» cancellando la presenza dell'autore, il quale si nasconde dietro ai personaggi e agli eventi senza lasciare tracce di uno stile. Detto in modo più radicale, pur non essendo male 'Il padre' manca di uno «sguardo», della visione in grado di riscattare con un grande film tanti anni di colpevole oblio. (...) il film non ha ereditato che in minima parte la potenza e il respiro epico, traducendoli invece in termini accademici. Dopo una parte iniziale intensamente drammatica, quella del massacro, il film si articola in un dilatato road-movie non privo di lungaggini e di parti fiacche. Un percorso melodrammatico fatto d'incontri cattivi e buoni, spesso appartenenti al repertorio dei «luoghi obbligati» del mélo, lungo il quale lo spettatore è tenuto a condividere, contro tutte le probabilità, la speranza che ha Nazaret di potersi ricongiungere con le figlie. Però tutto ciò è gestito, più che come una grande saga storico-familiare, secondo le modalità un po' ricattatorie del melodramma. E peggio va le volte in cui Akin si lascia andare a scene oniriche, stridenti col tono neutro del resto. (...) dinanzi a un racconto romanzesco dal finale catartico la cui cosa più emozionante sono i grandi paesaggi in campo lungo, non possiamo impedirci di considerare il film un'occasione mancata." (Roberto Nepoti, 'La Repubblica', 9 aprile 2015) "Era molto atteso "Il padre' perché il regista turco-tedesco Akin si è fatto valere con film come 'La sposa turca' non del tutto rifiniti, ma molto grintosi ed espliciti. Purtroppo stavolta ha deciso d'imboccare la strada dell'affresco storico semi autobiografico, finendo con l'offrire al pubblico, prima dei festival e ora del circuito, un retorico e tronfio kolossal dal sapore stilistico indistinto. (...) Sulla base di una pagina nera della storia contemporanea, già esplorata con ben altra tempra da numerosi colleghi, Akin si lascia andare a una serie inesausta di scene madri, telefonate e pannelli didascalico-illustrativi che riescono nell'impresa di addormentare il ritmo, rendere mediocrissime le interpretazioni e non ricavare particolari emozioni da uno dei genocidi più atroci." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 9 Aprile 2015) "Nella cine-trilogia di Fatih Akin l'amore ('La sposa turca') è una donna che rivendica la propria libertà sentimentale; la morte ('Ai confini del paradiso') è il metafisico filo che correla alcuni percorsi di vita; mentre il diavolo evocato nel terzo e ultimo capitolo 'Il padre' è l'omicidio di massa perpetrato durante la Grande Guerra dagli ottomani contro la minoranza armena: un vero e proprio genocidio - di cui quest'anno ricorre il centenario - che secondo molti storici aprì la strada all'idea nazista dello sterminio ebraico. (...) Di certo il film è penalizzato da una sceneggiatura troppo fiacca (di Mardik Martin, collaboratore di Scorsese per 'Toro scatenato') che, nel proposito di far emergere il fattore umano, finisce con il trascurare l'aspetto storico e perde di vista la dimensione epica. Ma, avvalendosi della fotografia di respiro classico di Rainer Klausman, delle ottime scenografie di Allan Starski ('Schlinder List' e 'Il Pianista') e della consulenza di Roman Polanski, Akin impagina il dramma con onestà e con pudore formale; ed è convincente la naturalistica, sobria interpretazione del francese Tahar Rahim, apprezzato protagonista di 'Il profeta' e 'Il passato'." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 9 aprile 2015) "Il film «cinematograficamente» brutto per costruzione narrativa, scelte visuali, format da coproduzione internazionale era arrivato al lido con un appeal mediatico extra-cinematografico (...) Akin, a parte un cartello iniziale all'interpretazione storica preferisce il punto di vista della «vittima», non degli armeni, non solo almeno, ma delle vittime tout court, che negli sballottamenti della Storia finiscono per somigliarsi. Non sono le ragioni politiche, economiche, culturali che lo interessano ma appunto la Vittima, con cui il regista si mette al riparo da ogni assunzione di responsabilità - e dai rischi se pensiamo che negli anni '70 lo storico turco Taner Akcam è stato condannato a dieci anni di prigione per avere parlato del genocidio, e che il film è stato minacciato in patria dagli ultranazionalisti di essere bloccato in ogni sala del Paese. (...) le due ore de 'Il Padre' sul genocidio degli armeni dicono poco, lasciano capire ancora meno, e «l'importante è che se ne parli» nel sottotesto (poi perché con un brutto film?) lo rende persino fastidioso. (...) Akin tra riferimenti cinematografici più o meno espliciti - dal Lawrence d'Arabia di David Lean a America, America di Kazan, non assume un preciso punto di vista, e il genocidio alla fine coincide con l'identità migrante, con la perdita delle proprie radici. Francamente un modo un po' «facile» di guardare dentro a questa Storia." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 9 aprile 2015) "Lo aspettavamo da tempo il nuovo film del talentuoso turco-tedesco Fatih Akin, già Orso d'oro per l'eccezionale 'La sposa turca'. E questo suo pseudo-kolossal sul genocidio armeno sembrava - sulla carta - perfetto a chiudere la trilogia Amore-Morte-Satana. Se le delusioni sono direttamente proporzionali alle aspettative, 'Il padre' (in originale 'The Cut') risponde pienamente alla regola: un filmone lungo, ripetitivo, retoricamente enfatico, lontano dalla forza del racconto che sappiamo tipica di questo giovane regista e in un'irreale lingua inglese. Vogliamo pensare che Akin sia 'scivolato' in un episodio che - se tale rimane - possiamo perdonargli. Peccato, però." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 9 aprile 2015) "Piacerà a chi invocava per il grande massacro, un bel film epico, un melodramma di grandi polmoni (ci hanno provato qualche anno fa i fratelli Taviani ma gli è venuto moscio). Il turco tedesco Akin i polmoni li ha. E pure un gran mattatore a disposizione (Tahar Rahim del 'Profeta')." (Giorgio Carbone, 'Libero', 9 aprile 2015) "Sfibrante giro del mondo in tremila giorni, o poco meno. (...) L'eroico Tahar Rahim vaga qui è là cercando di farsi capire dai molti viandanti e perdonare dal pubblico le troppe lungaggini." (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 9 aprile 2015) "Cent'anni fa, nel 1915, i Turchi dell'Impero Ottomano dettero inizio in Anatolia a quella strage degli Armeni che doveva concludersi con un vero e proprio genocidio pur inutilmente smentito dai loro storici. (...) Date le polemiche su quel genocidio e le versioni opposte che tuttora se ne danno, si poteva pensare che Akin si fosse rivolto a quei casi da un punto di vista turco, tutto il contrario, invece, se si eccettua un turco 'buono' che a un certo momento darà una mano al protagonista armeno in difficoltà. (...) Non è certo, va detto subito, 'La Sposa turca', è un film hollywoodiano, nonostante i tanti Paesi europei che lo hanno finanziato e ha il torto, con tutte quelle peripezie di viaggio del protagonista e la sua ricerca ansiosa delle figlie un po' dovunque, di sminuzzare la vicenda in tanti episodi che pur susseguendosi di continuo non arrivano a crearsi un vero clima attorno. C'è il dramma, c'è l'avventura, ci sono cattivi e buoni che continuano a presentarsi senza parsimonia tra le pieghe del racconto ma con scarsissime emozioni (...)." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 8 aprile 2015) "Un epico viaggio dal Medioriente agli Stati Uniti per raccontare guerra e migrazione, amore e speranza, sullo sfondo di un dramma storico che per molti decenni è rimasto un tabù: il genocidio degli Armeni, che coinvolse circa un milione e duecentomila cristiani deportati attraverso le tristemente note 'marce della morte' verso i campi di sterminio. Per concludere la sua trilogia su 'Amore, Morte e Diavolo', cominciata con 'La sposa turca' e proseguita con 'Ai confini del Paradiso', il regista turco tedesco Fatih Akin (...) ha scelto un tema di grande attualità, sul quale gli storici hanno cominciato a indagare solo di recente e che gli permette di fotografare luci e ombre dell'essere umano, i labili confini tra bene e male, la sofferenza che siamo in grado di infliggere al nostro prossimo. (...) La violenza nel film non può essere evitata, ma il regista, che nell'epoca del digitale ha scelto di realizzare il film in pellicola e in Cinemascope, assicura una certa distanza dall'orrore. (...) 'Il padre' è anche un omaggio ai cinema classico ed epico, a coloro che Akin considera i suoi 'padri' artistici, come Scorsese e David Lean, Roman Polanski fino a Charlie Chaplin e al cinema muto: il protagonista costretto a comunicare solo attraverso i gesti è simbolo di un popolo senza voce." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 1 aprile 2015) "Può a un film bastare il suo soggetto? Viene da chiederselo uscendo da 'The Cut', film 'cinematograficamente' brutto (...) per costruzione narrativa, scelte visuali, format da copro-duzione internazionale obbligato. Però a Venezia71 'The Cut' è arrivato con un appeal mediatico extra-cinematografico (che ormai sembra prevalere), come il film di un regista turco, pure se Akim vive in Germania, che affronta il tabù del suo paese d'origine il genocidio armeno, che non in molti (lo hanno fatto per primi i francesi) riconoscono come tali. (...) Il fatto è che, a parte un cartello iniziale, Akin offre zero interpretazioni a quanto accadde, scegliendo il punto di vista della 'vittima'. Non degli armeni, non solo almeno, ma delle vittime tout court, che negli sballottamenti della Storia finiscono per somigliarsi. Non sono le ragioni politiche, economiche, culturali che Io interessano ma appunto la vittima, con cui il regista si mette al riparo da ogni assunzione di responsabilità (...). Non credo che questo film dica molto sul genocidio degli armeni a chi lo vedrà. E quel 'è importante che se ne parli' lo rende ancora più fastidioso. Si ha infatti l'impressione di una sorta di melassa del pensiero, perché come diceva già lucidamente Fortini la costruzione della vittima cela qualsiasi altra ragione che sta nella violenza commessa dai poteri." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 2 settembre 2014) "Se è encomiabile la volontà del regista tedesco ma di origini turche di parlare del genocidio armeno senza infingimenti non è altrettanto convincente il modo in cui ci racconta un'odissea che a volte è inverosimile (come il fatto che gli armeni parlino inglese mentre turchi, arabi, cubani e americani si esprimano nelle loro lingue) e altre volte solo didascalica." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 1 settembre 2014)

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