Terra promessa2004

SCHEDA FILM

Terra promessa

Anno: 2004 Durata: 90 Origine: FRANCIA Colore: C

Genere:DRAMMATICO

Regia:Amos Gitaï

Specifiche tecniche:35 MM (1:1,85)

Tratto da:-

Produzione:AMOS GITAI, MICHAEL TAPAUCH PER MP PRODUCTIONS, AGAV HAFAKOT, HAMON HAFAKOT, RECORDED PICTURE COMPANY, CANAL+, ARTE, TELAD, MULTITHEMATIQUES, INTEREUROP

Distribuzione:LADY FILM (2005)

ATTORI

Rosamund Pike nel ruolo di Rose
Diana Bespechni nel ruolo di Diana
Hanna Schygulla nel ruolo di Hanna
Anne Parillaud nel ruolo di Anne
Alla An nel ruolo di Alla
Amos Lavi nel ruolo di Amos
Kristina Likhnysky nel ruolo di Kristina
Yussuf Abu Warda nel ruolo di Yussuf
Yussuf Abu-Warda nel ruolo di Yussuf
Shalva Ben Moshe nel ruolo di Igor
Craig Bachins nel ruolo di Greg
Meital Peretz nel ruolo di Meital
Menahem Lang nel ruolo di Menahem
Rani Kauchinsky nel ruolo di Rani
Peeter Polluveer nel ruolo di Peeter
Yelena Marunchenko nel ruolo di Yelena
Sacha Zov nel ruolo di Sacha
Katya Drabkin nel ruolo di Katya
Elena Kurkchi
Ella Vilk
Ingrid Bakho
Lilach Bitan
Maria Sokolov
Marina Pinchsov
Marta Morbayov
Olga Shapira
Tanya Sveshko
Yulia Sharkanovich
 
 
 

COSTUMISTA

Dinolesko, Laura
 

EFFETTI

Klavir, Pini

TRAMA

Alcune donne dell'Europa dell'Est stanno per essere vendute come schiave in Israele, destinate ad essere percosse e violentate. A capo della tratta di donne bianche c'è Hanna, una donna crudele, proprietaria dell'Hostess Club, una casa chiusa. L'arrivo di Rose, una giovane turista, porta tra le donne un barlume di speranza...

CRITICA

"Amos Gitai è il regista israeliano più di tutti polemico, risentito, e aggressivo, dotato però di una sapienza cinematografica che non ha eguali nel cinema del suo Paese. Lo ha dimostrato, ancora una volta, con il film sceso ieri in concorso, amaramente intitolato 'Terra Promessa'. (...) Un ritratto terribile di una situazione addirittura spaventosa che prima Gitai ci propone con immagini violentissime, affannate, percosse da ritmi quasi ossessivi, nel finale, chiude con un incendio, frutto di un bombardamento, che sempre con accenti convulsi, non tarderà, in cifre di catarsi, a trasformarsi in una liberazione. Un cinema forte e duro che, parlandoci dell'oggi, e senza veli, scuote e percuote. Con realtà che non si riesce a creder vere. In mezzo, il ritorno di Hanna Schygulla nei panni di una tenutaria. Un ricordo quasi mesto di epoche ormai lontane." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 8 settembre 2004) "Estremo ma meno convincente, 'Hotel Promised Land' dell'israeliano Amos Gitai che ci cala nell'abisso delle schiave importate dall'Est Europa in Israele con incongruo linguaggio paradocumentario. Va bene evitare il naturalismo, non estetizzare la violenza e la prostituzione, ma l'insieme, a tratti suggestivo, risulta oscuro e in parte compiaciuto. Percosse, umiliazioni, terrore, una mercante di schiavi che guida l'asta nel deserto (Anne Parillaud), una tenutaria rassicurante e letteraria (Hanna Schygulla), un'autobomba che esplode sotto il bordello regalando un'insperata libertà alle ragazze. Anche dal caos può nascere il bene. Peccato però che i personaggi non prendano forma, i sentimenti restino ovvi o primari, il film magmatico e inconcludente." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 8 settembre 2004) "Amos Gitai, cinquantaquattrenne israeliano controcorrente, è uno di quegli autori nati con la camicia: i festival dell'intero orbe terracqueo selezionano avidamente le sue opere, senza darsi mai la pena di verificare se per una volta non gli siano riuscite malamente. Su 'Promised Land' non è il caso d'infierire perché, come spesso accade, le intenzioni sono buonissime: (...) Indeciso tra sensazionalismo pruriginoso (come nei classici di serie B sulla tratta delle bianche) e slancio politico buonista, Gitai firma un film amorfo e distratto, nonostante si sia premurato di coinvolgere attrici collaudate come Rosamund Pike, Anne Parillaud e Hanna Schygulla. Forse già pensava a confezionare un film per il prossimo festival." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 8 settembre 2004) "Gitai sottolinea due punti dello stile prescelto. Non ha voluto spettacolarizzare la prostituzione, quindi ha valorizzato squallore e disperazione in cui le schiave si trovano. E ha evitato una messa in scena troppo strutturata. Tratto comune a tutto il suo cinema, che qui si esprime in un succedersi di scene apparentemente scoordinate, buie, angosciose. La liberazione delle schiave viene paradossalmente da un attentato e dal panico che ne segue. L'assenza di appeal sarà stata una scelta ma ne risente l'attenzione che si è disposti a dare al film." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 8 settembre 2004) "Fra le 'imposte da pagare' di ogni Festival, specie della Mostra, c'è quella di avere in film di Amos Gitai in concorso (...) 'Terra promessa' - da vedere in ultima fila, causa le immagini traballanti per l'uso costante della camera a mano - è un film relativamente interessante per il soggetto, ma pur sempre opera di un aureo incapace di portare la sua storia da qualche parte." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 9 settembre 2004) "'Hotel Promised Land', Hotel terra promessa, è il sarcastico titolo di un film che Amos Gitai, cineasta israeliano dissidente, ha realizzato con furia incontenibile, come se fosse un reportage in diretta dall'inferno. Non credo che piacerà a Likud & Co. Per happy-end il film ha un attentato terrorista palestinese. (...) Ma Amos Gitai, che di traffico internazionale della prostituzione e organizzazioni criminali è un investigatore da sempre, qui cerca di fondere il suo occhio documentaristico, capace di sfondare il visibile naturale, con quello del regista di fiction che fa esplodere le gabbie narrative, come succedeva in 'Kippur'. E simula il tocco auto-biografico innaturale, incorporandosi in "corpi altri". Per questo si chiamerà immorale, quasi porno questo insostenibile poema visuale sulla civiltà del desiderio zero". (Roberto Silvestri, 'Il Manifesto', 8 settembre 2004) "Tagliato corto con tutti i clichè sulla prostituzione (a cominciare dal voyeurismo), la regia prende le distanze dal soggetto: trasuda energia nervosa nelle immagini girate con telecamere digitali; adotta la crudezza del reportage senza commento. Proprio nel momento in cui sopprime l'emozione a comando, però, stabilisce un contatto forte con lo spettatore comunicandogli disagio, un malessere ai limiti della sopportazione. L'impresa di Gitai non si mantiene, purtroppo, coerente fino in fondo col suo assunto formale e coraggioso e intransigente. Vengono fuori alcuni personaggi già visti e un epilogo che sa di espediente narrativo." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 20 maggio 2005)

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