Dopo l'amore2016

SCHEDA FILM

Dopo l'amore

Anno: 2016 Durata: 100 Origine: BELGIO Colore: C

Genere:COMMEDIA, DRAMMATICO

Regia:Joachim Lafosse

Specifiche tecniche:RED DRAGON, REDCODE RAW, SCOPE, DCP (1:2.35)

Tratto da:-

Produzione:LES FILMS DU WORSO, VERSUS PRODUCTION IN CO-PRODUZIONE CON RTBF (TÉLÉVISION BELGE), VOO, BE TV ET PRIME TIME (TBC)

Distribuzione:BIM

ATTORI

Bérénice Bejo nel ruolo di Marie
Cédric Kahn nel ruolo di Boris
Marthe Keller nel ruolo di Christine
Jade Soentjens nel ruolo di Jade
Margaux Soentjens nel ruolo di Margaux
 

MONTAGGIO

Dedet, Yann
 

SCENOGRAFIA

Radot, Olivier
 

COSTUMISTA

Chavanne, Pascaline

TRAMA

Dopo aver passato 15 anni insieme, Marie e Boris separano. Lei ha comprato la casa in cui vivono con le loro due figlie; ma è lui che l'ha ristrutturata. I due sono costretti a vivere comunque ancora insieme perché Boris non ha i mezzi per trasferirsi. E giunti al momento di fare i conti, nessuno dei due vuole lasciar andare ciò che ritiene di aver portato.

CRITICA

"In un cinema che sembra aver perso ogni ambizione progettuale, ogni orgoglio culturale (com'è stato quello - diciamo - fino agli anni Sessanta/Settanta, dove i film sapevano ancora dare forma all'esperienza dello spettatore), in un cinema che, tolti i soliti pochi casi, sembra rispondere soprattutto alle richieste del marketing e del puro intrattenimento, il ritorno alla realtà e al racconto che se ne può fare si rivela come la più praticabile possibile via di sopravvivenza, di dignità. E ritrovare nella descrizione del reale l'ambizione di un cinema che vada direttamente al cuore delle cose e al bisogno di riportare lo sguardo dello spettatore su cose che altrimenti rischiano di essere dimenticate o - peggio - «censurate». Come i momenti di dolore e di sofferenza che la vita ci mette di fronte. Sono quelli che racconta il belga Joachim Lafosse con 'Dopo l'amore', affidando a Bérénice Bejo e Cédric Kahn il compito di restituire sullo schermo quel misto di rabbia, disperazione, sofferenza, recriminazioni e rimpianti che si intrecciano quando finisce l'amore. (...) dietro la querelle economica c'è dell'altro, molto altro, che la sceneggiatura del regista con Fanny Burdino e Mazarine Pingeot fa emergere scena dopo scena, senza forzature «didascaliche» o colpi di scena melodrammatici. Ecco cosa intendevo quando parlavo di realtà e del racconto che se ne può fare: la scelta di un cinema che si ponga «al servizio» dei suoi protagonisti, che non voglia prevaricarli magari chiudendoli nell'armatura di un cinema d'autore troppo preoccupato di affascinare lo spettatore con le sue prodezze, che rispetti le lentezze, le esitazioni e le contraddizioni di chi ha scelto di filmare, che chieda agli attori di adattarsi ai propri personaggi (e non viceversa) e che sappia costruire scena dopo scena un percorso di svelamento e di illuminazione senza però allontanarsi mai dalla via maestra di un pacato realismo. Il che naturalmente non vuol dire rinunciare a una propria cifra di stile e di messa in scena. Dopo l'amore, per esempio, è tutto girato all'interno della casa dove Marie e Boris cercano di convivere sul filo delle regole che si sono date (...). I muri della casa delimitano le quinte della scena, ma senza mai che lo spettatore abbia la sensazione di trovarsi davanti a del teatro filmato: qui la mobilità della macchina da presa attraversa e percorre gli spazi trasmettendo quello che la regia vuol far capire dei suoi due protagonisti, e cioè rivendicare la «proprietà» di un territorio mentre ci si sente insieme prigionieri di quello stesso ambiente. Senza dimenticare tutte le sfumature culturali e sociologiche che il dialogo fa emergere, dalla differenza di classe tra Marie e Boris alla differenza di mentalità tra la donna e la sua più pragmatica madre (una ritrovata Marthe Keller), dall'atteggiamento verso le due figlie al modo in cui ognuno finisce per «usarle» ai propri fini, ai «ricatti» sentimentali che le due bambine sanno mettere in atto. E che finiscono per restituire proprio quella complessità e quella normalità del reale che l'enfasi dei media finisce per annullare, troppo preoccupata com'è di trovare l'eccezione e l'unicità (l'evento) e che invece il cinema è capace di riportarci davanti agli occhi." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 17 gennaio 2017) "(...) bel film del belga Lafosse (...). Grande anatomista di famiglie in crisi (era suo 'Proprietà privata', con Isabelle Huppert 'crocefissa' dai fratelli Yannick e Jérémie Renier), Lafosse riscrive infatti ossessivamente con gli attori sceneggiature già lavorate alla virgola, per poi rimettere tutto in discussione sul set. Ne esce un teatro della crudeltà che mette a disagio per l'affilatezza della scrittura scenica (Bérénice Bejo, sempre strepitosa, e Cédric Kahn, regista prima che attore, sono a dir poco perfetti) e l'acutezza dell'analisi psicologica e sociale, orizzonte unico di un film volutamente privo di sviluppi drammatici forti (il modello di Lafosse, per sua stessa ammissione, è 'Chi ha paura di Virginia Woolf' di Albee, portato al cinema da Mike Nichols)." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 19 gennaio 2017) "Il 'dramma borghese' aggiornato al tempo della crisi economica - senza la ruffianeria del classico della commozione familiare 'Kramer contro Kramer' - non agguanta mai. Non coinvolge, non appassiona, è abbastanza piatto nonostante i bravi interpreti. Però la protagonista franco-argentina, rivelazione di 'The Artist', intensa interprete di 'Il passato' per l'eccellente regista iraniano Farhadi (anche lì una coppia alle prese con il divorzio, ma altra stoffa), portatrice di qualità nel discusso 'Fai bei sogni' di Bellocchio, qui è monocorde e delude un po'." (Paolo D'Agostini, 'La Repubblica', 19 gennaio 2017) "Filmati in lunghi piani sequenza mentre affrontano la crudeltà della rottura, i protagonisti di 'Dopo l'amore' (...) raccontano la fatica e il dolore della fine di una storia. In fondo un evento comune, niente di speciale. Un cataclisma che tanti conoscono, ma, proprio per questo, difficile da rendere con tanta, febbrile, intensità (...)." (Fulvia Caprara, 'La Stampa', 19 gennaio 2017) "Il film di Lafosse è un dramma d'interni, siamo dentro la casa, siamo dentro alla coppia, siamo dentro a quel momento in cui nulla può accadere se non arrendersi al fatto che l'amore, o anche soltanto la possibilità di una relazione, sono finiti per sempre. E la scelta, stilistica appunto, di non uscire mai dall'elegante domicilio coniugale, di non varcare la soglia chiusa del giardino permette alla narrazione di assorbire il mondo esterno dentro allo spazio privato. La lotta di sentimenti diviene così lotta di classe, il capitale contro il lavoro tra le pareti domestiche, la politica nell'intimità, il senso precario di un presente in cui le recriminazioni sulle responsabilità familiari e su chi paga i conti finiscono per diventare un detonatore. Lafosse non prende parte per uno o per l'altro dei personaggi e nemmeno offre appigli che «spieghino» tale disastro sentimentale. Dissemina indizi, un possibile tradimento forse, o l'accumulo di stanchezza lascia agli spettatori la libertà di scegliere il proprio punto di vista. Le ragioni si affidano ai corpi, al malessere che raccontano, a quel loro annaspare negli ambienti prima comuni, condivisi, come la loro vita, e adesso segmentati in infiniti check-point emotivi. E pure lasciarsi andare non serve a nulla, una carezza diventa tagliente, un abbraccio soffoca e ferisce. Alla fine più che una «questione di cuore» è sempre e soltanto questione di soldi, di conti, di stime, di cifre, di regole stabilite. Sentimenti compresi." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 19 gennaio 2017) "(...) è un buon film, che segue senza temere stasi e iterazioni la fine di una relazione di coppia - l'amore c'è ancora, non è il dopo, ma un durante terminale. Splendide le gemelle Jade e Margaux (Soentjens), apprezzabile l'astensione dal giudizio e dal 'parteggiare per' di Lafosse, che tra moglie e marito mette solo la camera: problema, per presenza scenica ed empatia Kahn (...) si mangia la Bejo (al solito, bella ma non balla), e dobbiamo dire a noi maschietti non spiace poi troppo... Coraggioso avvio in 'medias res' senza 'spieghe' sulla rottura, regia minimalista e sapiente anamnesi relazionale, una contabilità sentimentale che vale il biglietto." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 19 gennaio 2017) "Piacerà a chi si rifiuta di credere che le storie di coppie che scoppiano possano essere raccontate solo coi moduli di una commedia. Gli italiani i drammi coniugali non sanno raccontarli, i francesi ancora sì. Joachim Lafosse (non nuovo all'argomento) è abilissimo a tratteggiare la crisi e a serrarci un nodo in gola nel malinconicissimo finale." (Giorgio Carbone, 'Libero', 19 gennaio 2017) "Una riuscita commedia ai confini del dramma nella provincia francese. Intensa e toccante, nonostante il mare di chiacchiere, e due ottimi interpreti." (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 19 gennaio 2017)

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