L'altra faccia del vento2018

SCHEDA FILM

L'altra faccia del vento

Anno: 2018 Durata: - Origine: FRANCIA Colore: B/N

Genere:BIOGRAFICO, DRAMMATICO

Regia:Orson Welles

Specifiche tecniche:EASTMANCOLOR, (1:1.37), DIGITAL INTERMEDIATE (4K), SUPER 16 / SUPER 35 / SUPER 8, 35 MM

Tratto da:-

Produzione:FRANK MARSHALL FILIP JAN RYMSZA PER LES FILMS DE L'ASTROPHORE (PARIGI), SACI (TEHERAN), ROYAL ROAD ENTERTAINMENT

Distribuzione:NETFLIX

ATTORI

Peter Bogdanovich nel ruolo di Higgan
Susan Strasberg nel ruolo di Julie Rich
Lilli Palmer nel ruolo di Zarah Valeska
John Huston nel ruolo di J.J. "Jake" Hannaford
Edmond O'Brien nel ruolo di Pat Mullins
Oja Kodar nel ruolo di L'attrice
Mercedes McCambridge nel ruolo di Maggie Noonan
Cathy Luvas nel ruolo di Mavis
Norman Foster nel ruolo di Billy
Rich Little nel ruolo di Otterlake
Cameron Mitchell nel ruolo di Matt
Joseph McBride nel ruolo di Il critico cinematografico
Tonio Savard nel ruolo di Il barone
Cameron Crowe nel ruolo di Ospite alla festa
Claude Chabrol nel ruolo di Se stesso
 

SCENEGGIATORE

Kodar, Oja
Welles, Orson
 

MUSICHE

Legrand, Michel

TRAMA

Nel film, John Huston è un vecchio regista di Hollywood da tempo in crisi che spera di tornare in auge girando un film pieno di sesso e violenza. Nelle scene girate ci sono giornalisti e personaggi del sottobosco cinematografico molto simili a quelli che circondavano Welles anche nella vita, anche se lui ha sempre negato che il film fosse autobiografico. Huston ha raccontato nelle sue memorie pubblicate nel 1979 alcuni fatti avvenuti sul set.

CRITICA

"Si fosse visto quando era stato girato, negli anni Settanta, avrebbe avuto l'effetto di una bomba, tanto smontava le mode e metteva in discussione le certezze. Oggi, quando 'The Other Side of the Wind' è diventato finalmente visibile grazie alla testardaggine di Peter Bogdanovich e all'intervento finanziario di Netflix, il film postumo di Orson Welles può sembrare un «oggetto misterioso» che parla soprattutto ai cinefili, rischiano così di offuscare le sue straordinarie qualità. Perché quello che doveva segnare il ritorno di Welles negli Stati Uniti dopo più di vent'anni di «esilio» europeo e che l'autore voleva fosse «completamente diverso da qualsiasi altro film girato finora» (per non smentire quello che aveva sempre guidato le sue regie: mettere in discussione le certezze dello spettatore) rischia di ridursi all'espressione delle sue idiosincrasie e delle sue ossessioni. A cominciare da un montaggio pirotecnico, che mescola immagini a colori e in bianco e nero, 35 e 16mm, formato panoramico e rettangolare, per restituire il caos e l'indecifrabilità del reale. (...) dar troppa enfasi all'odissea produttiva rischia di distrarre dal senso profondo del film che stimola una doppia riflessione: sulla fine di un certo tipo di cinema messo in discussione dai campioni della «modernità» (se il suo Hannaford è la versione cinematografica di un «vecchio» personaggio hemingwayano, era inevitabile che Welles se la prendesse con i campioni del «nuovo», i registi della Nouvelle Vague, il «mangiaspaghetti» Bertolucci, Antonioni, di cui «rifà» una scena di Zabriskie Point) e poi - seconda riflessione - il modo in cui quella crisi poteva essere raccontata. Sono gli spunti oggi più interessanti, come il complicato rapporto tra Hannaford e il suo allievo prediletto (interpretato da Bogdanovich), l'ambiguo legame tra il regista e i suoi attori, il suo troppo sbandierato machismo (nel film dentro il film, Oja Kodar, allora musa e collaboratrice del regista, è spesso ostentatamente nuda), ma anche l'insensatezza di certe curiosità, le riflessioni della montatrice (affidata una grande attrice di Orson Welles, Mercedes McCambridge), il destino dei luoghi di proiezione. Welles non è mai stato un regista metodico e ordinato, preferiva il «caos fertile» alla freddezza didascalica e questo film, così come l'operazione di Bogdanovich e Netflix che l'ha fatto tornare a vivere, rischia forse di sorprendere gli spettatori più giovani, che non ricordano operazioni simili (e coeve) di Welles, come 'F For Fake' o 'Filming Othello'. Ma proprio per i suoi «eccessi» e le sue «eccentricità» questa può essere l'occasione ideale per riscoprire oggi uno dei più grandi registi di tutti i tempi." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 1 settembre 2018) "Il vero evento della Mostra del cinema, il film più sorprendente, è un film postumo. (...) un titolo leggendario, uno di quei film incompiuti i cui materiali Orson Welles si portò dietro fino alla morte. (...) Finalmente ora esiste una versione del film, che certamente non è quella di Welles (si aspettano diatribe dei filologi), ma che il suo devoto fan Peter Bogdanovich (anche attore nel film, nei panni di un quasi-se stesso) ha portato a termine seguendo gli appunti del maestro e utilizzando parti già montate. Si ha davanti un oggetto inclassificabile, fin dalla prima vertiginosa sequenza, su musiche jazz di Michel Legrand (...). Che, capiamo presto, in realtà è un insieme di deliri onirici. Ciò ha causato, nella proiezione, un'involontaria 'mise en abyme': si guardava un film incompiuto e caotico, su un regista che a sua volta mostra un film caotico e incompiuto. (...) lo stile è quasi da happening, di un reportage con macchina a mano, mentre il film nel film è una specie di ipnotico porno d'avanguardia, tra parodia di 'Zabriskie Point' e premonizioni di 'Eyes Wide Shut'. Sembra uno di quei 'film mitici', estremi, immaginati da certi scrittori, da Jonathan Coe a Paul Auster: solo che esiste davvero. Non sappiamo quanto ciò sia dovuto alla difficoltà di ricomporre il girato, ma se Fellini in '8 ½' aveva raccontato la confusione e la crisi creativa redimendole nella forma, Welles sembra far dilagare il caos nel suo film. Ormai fuori dai giochi, è disinteressato alla forma e pressato dall'urgenza delle proprie ossessioni. Le immagini finali sono un testamento epico e teorico, un addio al cinema inteso anche come sguardo del maschio sulla femmina. E usciti dalla sala, si guarda come da un altro pianeta a tutte le immagini che passano al Lido, e nel resto del mondo." (Emiliano Morreale, 'La Repubblica', 1 settembre 2018) "Se è questo il film che il regista di 'F for Fake' aveva in mente non lo sapremo mai ma poco importa. Così come non è importante l'idea stessa di finitezza, se sia compiuto o meno, perché 'The Other Side of the Wind' non può essere finito, la sua materia è il cinema stesso, il suo movimento, un respiro, il divenire che sui bordi dei foto grammi mette alla prova lo sguardo delle spettatore e il proprio essere. Film nel film, racconto di una vita, epico e malinconico, jam session di immagini caustica e tenerissima contro la «finitezza» della storia, dello script, della scadenza di un cinema in cui irrompe prepotente la vita, e forse anche il contrario, legame viscerale, incessante. Infinito appunto. (...) All'inizio Welles voleva fare un film «alla Godard», una specie di ironia delle Nouvelle Vague (...). Ma 'The Other Side of the Wind' col suo lisergico passaggio tra bianco e nero e colore, 35 millimetri e 16 millimetri, zoom impazziti è il racconto commuovente e magnifico nella sua sovraesposizione di sé, del regista e dell'intimità di un fare cinema che sfugge alle regole e alle imposizioni, che è lotta, fatica, follia. Quasi una autobiografia (o un'autofinzione) attraverso il fare-cinema, i film di un regista che non teorizza-come le più giovani generazioni che lo circondano, tutto è lì, «la regia è una cosa semplice». La società dello spettacolo e lui, Orson Welles senza retorica né moralismi, in quel flusso di immagini parole davanti allo schermo vuoto." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 1 settembre 2018) "(...) il film non ha centro di gravità, non ha sceneggiatura: è una sorta di splendida tela di Penelope interrotta dalla morte di Welles (...). Rimasero più di cento ore di pellicola; bianco e nero e colore, mute e sonoro custodite da parenti e amici non senza dispute legali. A Netflix è parso opportuno investire nel mito: a quale casa editrice non piacerebbe avere un Proust postumo in catalogo? Il risultato è scoraggiante: al quel materiale stupendo nella sua inerzia si è voluto dare una forma ma senza avere il filo posseduto da Welles ci si è persi nel labirinto. 'The Other Side of the Wind' così come lo vedremo in streaming è un puzzle costruito con un numero ridotto di tessere, cinicamente scelte laddove sesso, ironia e gossip hanno la meglio. Cosa rimane del sarcasmo dispettoso del genio: poco più di niente." (Andrea Martini, 'Nazione-Carlino-Giorno', 1 settembre 2018) "Che fine avesse fatto (...) 'The Other Side of the Wind' - l'ultimo film girato da Orson Welles tra il 1970 il '76, mai terminato, mai distribuito e poi scomparso - lo sapevano in pochi. Poi il miracolo. Il ritrovamento delle bobine, il restauro, una colonna sonora scritta per l'occasione, un team di montatori ad hoc, i soldi di Netflix ed ecco l'evento più cinematografico della Mostra. (...) Un film (per cinefili malati), fatto da un regista-icona, che racconta la storia, tutta in una notte a cui però mancano diversi «fotogrammi», di un regista sul viale del tramonto, interpretato da un gigantesco John Huston, alle prese - siamo nel puro metacinema al quadrato - col suo ultimo attesissimo capolavoro. Riuscirà a finirlo? Per quanto riguarda l'intera visione, non tutti gli spettatori in sala - al netto della capacità visionaria di un Orson Welles in fase psichedelica - ci sono riusciti..." (Luigi Mascheroni, 'Il Giornale', 1 settembre 2018) "(...) , un metacinema straniante girato tra '70 e '76 e ora completato dall'allora direttore di produzione Frank Marshall con l'aiuto di Peter Bogdanovich (...)." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 1 settembre 2018) "Si era appena spenta l'eco per il primo film muto di Orson Welles ('Too Much Johnson'...) che l'attenzione si riaccende adesso per il suo ultimo film parlato, 'The Other Side of the Wind', annunciato in uscita (...) per il centesimo anniversario della nascita del regista. Un film di cui si conoscevano le complicate peripezie di lavorazione, durate almeno cinque anni, dal 1970 al '75, ma che nessuno ormai sperava più di vedere perché inghiottito, con la morte di Welles (avvenuta il 10 ottobre 1985), dentro il buco nero dei suoi estemporanei finanziatori e della sua proverbiale «confusione» produttiva. E invece 1.083 bobine - e in ottimo stato - sono state ritrovate in un magazzino alla periferia di Parigi, come riferisce il 'New York Times', e hanno convinto la società Royal Road Entertainment, produttrice di diversi film indipendenti, a tentare quello che non era riuscito neppure a Welles: portarne a termine il montaggio e presentarlo al pubblico. Il film, così come l'aveva raccontato lo stesso Welles alla rivista spagnola 'Dirigido por...', raccontava l'ultima giornata di vita del regista J.J. Hannaford (interpretato da John Huston) e la festa che una sua vecchia amica aveva organizzato perché le nuove leve della professione lo conoscessero e parlassero con lui. La storia di questa giornata, che si sarebbe conclusa tragicamente, era costruita lungo due direttive: da una parte i filmati e le registrazioni che i vari invitati avevano fatto del ricevimento, una specie di documentario costruito attraverso riprese familiari e amatoriali, e dall'altra le immagini dell'ultimo film di Hannaford, storia di un ragazzo e una ragazza che dopo molte peripezie finiscono per ritrovarsi tra i ruderi di quello che era stato uno studio cinematografico. Insieme tutto questo materiale avrebbe dovuto «spiegare» chi fosse davvero il protagonista, «un uomo dai mille volti», il cui vero misteri non è la natura della sua morte (un incidente d'auto molto simile a un suicidio) «ma la sua natura di uomo, la verità su di lui come artista e come fabbricante di maschere». Il che fa capire come dietro questo J.J. Hannaford ci fosse lo stesso Welles e la sua eterna riflessione sul cinema e il suo senso. Il regista di 'Quarto potere' aveva lasciato moltissimi appunti sul film e le sue idee di messa in scena, oltre a un primo montaggio della durata di 45 minuti. Il vero ostacolo era quello di convincere tutti coloro che potevano vantare dei diritti su quel materiale a collaborare al progetto, dopo che per anni si erano bellamente ignorati, e cioè la figlia Beatrice (a cui il padre aveva lasciato la tutela del suo patrimonio), Oja Kodar che fu l'ultima compagna del regista (e che nel film recita anche) e la casa di produzione franco-iraniana L'Astrophore, di cui era socio il maggior finanziatore del film, Mehdi Boushehri, cognato dello Scià di Persia. Ma i miracoli avvengono ancora e la testardaggine di Jan Rymsza (produttore della Royal Road) e di Frank Marshall (che del film era stato direttore di produzione) è riuscita a ridare una nuova vita al film-testamento di Welles." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 30 ottobre 2014)

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