Fellini - Satyricon1969

SCHEDA FILM

Fellini - Satyricon

Anno: 1969 Durata: 138 Origine: FRANCIA Colore: C

Genere:DRAMMATICO

Regia:Federico Fellini

Specifiche tecniche:TECHNICOLOR PANAVISION

Tratto da:ISPIRATO AL ROMANZO DI GAIO PETRONIO ARBITRO

Produzione:ALBERTO GRIMALDI PER LA PEA/PRODUZIONI EUROPEE ASSOCIATE

Distribuzione:PEA (1983) - RICORDI VIDEO, PANARECORD

ATTORI

Alain Cuny nel ruolo di Lica
Capucine nel ruolo di Trifena
Danika La Loggia nel ruolo di Scintilla
Elisa Mainardi nel ruolo di Arianna
Fanfulla nel ruolo di Vernacchio
Giuseppe Sanvitale nel ruolo di Abinna
Gordon Mitchell nel ruolo di Il Predone
Hiram Keller nel ruolo di Ascilto
Hylette Adolphe nel ruolo di Schiavetta
Joseph Wheeler nel ruolo di Il Suicida
Lucia Bosé nel ruolo di La Matrona
Luigi Montefiori nel ruolo di Il Minotauro
Magali Noël nel ruolo di Fortunata
Mario Romagnoli nel ruolo di Trimalcione
Martin Potter nel ruolo di Encolpio
Max Born nel ruolo di Gitone
Salvo Randone nel ruolo di Eumolpo
 
 

COSTUMISTA

Donati, Danilo

TRAMA

Il giovane Encolpio è follemente innamorato dell'efebo Gitone. Il suo amico Ascilto glielo ha sottratto e l'ha venduto al teatrante Vernacchio. Encolpio riesce a riaverlo ma, dopo una notte d'amore, Gitone preferisce Ascilto e abbandona Encolpio. Siamo nell'ambiente notturno della malfamata Suburra, delle terme, dell'Insuleta Felicles, luogo di tutti i vizi e ritrovo babelico di tutti i relitti umani. Un terremoto fa crollare l'Insula. Encolpio riesce a salvarsi e incontra il poeta Eumolpo, che lo conduce alla fastosa cena di Trimalcione. Le portate si succedono alle portate, non manca la musica, la poesia e la grottesca farsa del funerale di Trimalcione col pianto degli schiavi: tutto a livello bestiale, col predominio incontrastato dei porci. Eumolpo, avendo offeso Trimalcione, è bastonato e gettato fuori dal banchetto. Encolpio lo incontra dolorante in aperta campagna, lo aiuta e insieme si addormentano. Finiscono così, senza accorgersi, schiavi sulla nave del tiranno di Taranto, Lica. Nella stiva Encolpio ritrova Ascilto, Gitone e attira, per la sua bellezza, il sadico e corrotto Lica. Avviene così una grottesca cerimonia nuziale fra Encolpio e Lica; ma subito dopo, in una sollevazione di soldati, il tiranno viene ucciso. Encolpio e Ascilto, liberi, giungono in una villa di patrizi romani, che si sono suicidati, dopo aver liberato gli schiavi. Trovano modo di divertirsi con una giovinetta negra, sola nella grande villa. La vicenda dei due amici continua. Alleatisi con un ladrone, Encolpio e Ascilto rapiscono, a scopo di lucro, un dio bambino ermafrodito; ma in una piana polverosa e desertica, sotto un sole accecante, il dio ermafrodito avvizzisce e muore. Encolpio e Ascilto, dopo una lotta furibonda col ladrone, continuano il loro viaggio. Giungono in una città ove si celebrano le feste del dio Riso ed Encolpio è costretto ad affrontare il Minotauro, che, in realtà, è solo un erculeo giovane mascherato, dal quale viene sconfitto e col quale si abbraccia. Il premio per Encolpio, nonostante la sconfitta, è la prosperosa Arianna. Ma qui fa la dolorosa scoperta della sua impotenza. Frattanto Encolpio incontra nuovamente il poeta Eumolpo, che tradendo la povertà tipica dell'arte, è diventato ricco e introduce il giovane nel Giardino delle Delizie ove l'allegria e le cure di festose ragazze dovrebbero guarirlo dalla sua impotenza; invece è un tormento inutile e uno spasso solo per l'amico Ascilto. Per riacquistare la sua virilità Encolpio si fa condurre con l'inseparabile Ascilto nell'antro della maga Enotea. Viene guarito, ma perde Ascilto, il quale ferito a un fianco nella lotta con il battelliere, che li ha condotto dalla maga, muore. Encolpio si ritrova in riva al mare davanti al cadavere del poeta Eumolpo che, per testamento, ha lasciato le sue ricchezze a chi si ciberà del suo cadavere. Un branco di vecchi abbruttiti e avidi si abbandona al macrabo pasto, mentre Encolpio, con alcuni giovani amici, si imbarca contento su una nave che veleggia verso l'Oriente.

CRITICA

"Se si passa dalle premesse culturali ai concreti risultati espressivi, le riserve non mancano: programmatica fin che si vuole, la frammentarietà non riesce a diventare una cifra stilistica: si ha l'impressione che il film potrebbe durare mezz'ora in meno o due ore in più senza che il risultato cambi. Soprattutto se paragonata con quelle delle sue opere precedenti, la galleria dei mostri finisce con l'essere un esercizio di alta acrobazia barocca fine a se stessa. (Morando Morandini, "Il Tempo", 11 ottobre 1969)" "In ogni immagine - in ogni significato simbolico come in ogni colore o richiamo pittorico - Fellini, il mondo di Fellini, quello che egli ama o odia, quello in cui crede o ha creduto o in cui non crede più: e, soprattutto - con lo stesso terrore che scaturiva dalla crisi di impotenza creativa del protagonista di 8 ½ - l'angoscia di fronte all'impotenza di ogni tipo, che significa morte: l'angoscia della morte. La morte, la fine, l'annientamento sono la cifra del film, il suo messaggio estetico e drammatico: una nota sola, quella funebre, un colore solo, quello spettrale, un solo stato d'animo, quello del disfacimento." (Gian Luigi Rondi, "Il Tempo", 5 settembre 1969) "I pochi momenti in cui questo universo allucinatorio, messo in scena ricorrendo a troppa cartapesta e popolato di una sottoumanità che francamente non riesce mai a interessarci o incuriosirci, trova una sua decantazione sentimentale e stilistica sono tutti nel segno della morte. La morte sentita soprattutto come corruzione e rovina della carne (esemplari, in tal senso, la figura di Eumolpo, il finto funerale di Trimalcione sullo sfondo di un paesaggio carico di lividi presentimenti, e ancor più l'agonia dell'ermafrodito con quelle labbra di un rosso osceno e piagato, unica macchia di colore in tutto quel fuoco bianco della vallata) e, raramente, come congedo sommesso e malinconico (il suicidio della coppia patrizia nella splendida villa deserta dopo la liberazione dei servi e la partenza dei figli). A questo senso di fine e di morte non contrasta certo il risvolto della vitalità e dell'amore impersonati dai tre giovanissimi eroi della disponibilità naturale e innocente, controcanto flebile improntato a un sentimentalismo ambiguo e ammiccante. E pertanto, se nell'immagine conclusiva restano dei cadaveri a mangiare e digerire i loro morti, l'allontanarsi di Encolpio e dei ragazzi preceduti, al solito, dal negro che canta e danza, non assume, non può assumere, alcun significato liberatorio al di là della sua immediatezza istintuale, quasi fisiologica, e rientra nella consueta bipolarità sentimentale e irriflessa della dialettica felliniana, in cui angoscia e allegria, impotenza e vitalità, avventura e deformazione tendono a cristallizzarsi in situazioni ricorrenti con sempre minore felicità fantastica." (Adelio Ferrero, "Mondo Nuovo", 21 settembre 1969). "Tutto il Satyricon è realizzato come una gigantesca caccia all'immagine che, a costo di bruciare i vecchi modi stilistici, dia il massimo d'evidenza figurativa alle fantasie di Fellini e le orchestri in un arcano gioco di luci e di ombre. Qui è la sua gloria, e qui il suo azzardo. Siamo, davvero, su un altro pianeta. Fin dall'inizio, alle Terme fumiganti, e poi, nel teatro di Vernacchio, s'avverte che Fellini ideando le scenografie (come ha tenuto a far sapere nei titoli di coda) ha sfrenato il proprio genio prospettico in una crescita di tensioni figurative. Dal lurido paesaggio dell'Isola Felice al luminoso sorriso della Pinacoteca, dalla corposa atmosfera della cena ai panorami marini popolati di navi fiabesche, dalla limpida, castissima cornice in cui si celebra il sacrificio della coppia all'ambiguità dell'antro dell'Ermafrodito, e ancora dal solare labirinto di Arianna alle malizie del Giardino fino all'ultima spiaggia che sublima nella levità del mito la gravezza della materia, e una serie pressoché ininterrotta di invenzioni, dominate dal desiderio di immergersi il più possibile in un irreale trapunto di lussuria e di tristezza. (Giovanni Grazzini, "Corriere della sera", 5 settembre 1969) "Fellini è ormai un autore definito sul piano artistico. I suoi film, anche il Satyricon, non meno degli altri. sembrano muoversi tra due piani che variamente di volta in volta si accostano, si fondono, si confondono: da una parte una memoria alla Proust, docile alle suggestioni nostalgiche, agli echi frustrati, quasi tutti ora in chiave psicanalitica, della sua giovinezza, e dall'altra un bisogno morale di accoppiare alla visione degli uomini il giudizio sugli uomini, alla appresentazione dei fatti una valutazione dei fatti, con la malcelata ambizione di poter essere interprete di umori, crisi, rabbie, delle generazioni contemporanee. Per il regista, sospeso ambiguamente tra due tensioni, la realtà altrui è un po' come la cartina di tornasole che gli denuncerebbe l'esistenza dei propri «acidi». Così la festa degli altri, le orgiastiche dissipazioni da «dolce vita», i party, magari in panni antichi, ma segnati da un gusto morboso dell'ubriacatura violenta e dell'impudicizia erotica, non appaiono mai nel regista fini a se stessi, o puro documento di una abiezione sociale. Così Fe||IIini-Satyricon non è un quadro dell'antichità decadente, né uno squarcio sull'obliqua immoralità dei tempi imperiali di Roma. Il film serve piuttosto al regista per potervi estrovertire, anche senza polemiche, le immagini del proprio disgusto esistenziale. Come in La dolce vita, così ora, con il Satyricon, il divertimento sbraitato, ottuso, vizioso, dalle cronache notturne della suburra trasteverina sino al pranzo di Trimalcione, e alle lubriche festosità sulla nave di Lica, e ai sollazzi priapei durante la «festa del riso», non ha un solo argine, né una sola speranza di resurrezione interna. (Alberto Pesce, "Ciak si legge!", ed. Ente dello Spettacolo, 1987). "Satyricon ci recupera un Fellini tutto maturo e intelligente, in una folla di immaturi, interamente legato alla sua opera anche se pronto a rinnegarla per un rinnovamento: un Fellini che si muove in una schiera di tipi, di mostri, di pellegrini di santuari (antichi oracoli o Divino Amore) come nella |Dolce vita|, che torna alle sue Saraghine e Cabirie, che non rinuncia al dialettalismo della sua esperienza neorealista, che rinnova con maggiore ricchezza le sue invenzioni fotografiche cromatiche, per un impiego del colore in funzione cine-pittorica. Non si cura di afferrare lo spirito di Petronio e della vera romanità - e forse nessuno vi riuscirà giammai - se non con lo slancio della sua forza immaginativa, che non manca di indulgenza verso il proprio mondo, cui non cerca di sfuggire, e che lascia sovrapporre al libro pretesto: sensibile alle |contaminationes|, se non del Brecht, di Marat-Sade e di Falstaff-Welles. (Mario Verdone, "Interventi sullo spettacolo contemporaneo", Matteo Editore, 1979). "La sensazione dell'autore di trovarsi oggi di fronte ad un mondo in crisi, in cui i giovani rivoltosi o sprezzanti sono in fondo i soli ad aver ragione perché vogliono ottusamente liberarsi di tutto; la sua stessa impressione, ribadita anche in recenti interviste, di essere stato vittima per anni della costrizione di tutti, e di aver detto di sì a tutti, e perciò il suo desiderio di rivoltolare tutto all'aria e di respirare quel che gli sembra un'aria diversa, «impensabile», tutta da inventare, in una sorta di documentario fantascientifico alla rovescia, saranno discutibili come posizioni umane e teoretiche. Ma sono tipiche di Fellini e della sua evoluzione (in fondo, Moraldo è sempre Moraldo. E' andato in città e si è cavato le voglie, ed ora sventra i libri del liceo che aveva abbandonato, inutili, nella stanza. prima di avviarsi alla stazione e salutare il suo giovane amico). Il suo viaggio, in fondo, non è finito, continua a pigliar treni ed a fantasticare. Un magro liceale romagnolo che, invecchiando, è diventato grasso e corpulento, e aureolato di calvizia come un mediatore o un avvocato di paese. Che le sue anticipazioni alla rovescia costino miliardi e rendano il triplo di quel che sono costate, è un rilievo contabile (per lui e il produttore). A noi deve qui interessare, in sostanza, quel che c'è di inquietante, di sfattamente geniale, di furiosamente ingenuo ed evocatore, nel suo modo di far cinema. (Claudio G. Fava, da "Le camere di Lafayette", "La Rassegna Editrice", Roma 1974).

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