NEWS a cura di Cinematografo.it

20 febbraio 2012

Come Berlino nessuno mai

Riflessioni a latere sulla 62° edizione del Festival appena conclusa: la disperazione e le perplessità dell'uomo al centro della manifestazione

La Berlinale non è un Festival come gli altri. Non lo è mai stato. Non lo sarà mai. Il cinema indipendente e il mondo sono sempre stati, dall'inizio, la cifra programmatica e poetica della manifestazione. Certo, il successo dell'ultima decade è imponente. Il film market di Berlino sta assumendo contorni da primato mondiale. E così è, con circa quattrocento titoli, produzioni e distribuzioni presenti nei dieci giorni di kermesse berlinese.Ma è l'uomo, la sua disperazione, le sue perplessità, a tornare sempre e di nuovo al centro del significato di questa manifestazione. Per questo il cinema presentato alla Berlinale, a parte alcune cose del concorso, (ormai le star internazionali sono ben liete di venirci) parla, di regola, un'altra lingua. Quella delle cose irrazionali e bizzarre che succedono quando l'uomo perde coscienza di sé e il contatto con il mondo. E allora la rottura delle regole nella sezione "Forum", l'infanzia e l'adolescenza salvate dalla fantasia e dalla forza del racconto nella sezione "Generation", l'incanto e lo stupore delle cose minime dei tanti contributi straordinari della sezione "Panorama" e "Forum", questo si, secondo i più, l'autentico volto della Berlinale. Lo stupore della grande Storia negli occhi del bambino Oskar (Thomas Horn) si è visto nel bel Extremely Loud and Incredibly Close di Stephen Daldry. La morte del padre nelle macerie del World Trade Center scatena una dinamica aggressiva e sistematica di salvataggio. Poetico. O la piccola storia, quella della povertà e dei margini, negli occhi del piccolo Simon (Kacey Mottet Klein) in L'enfant d'en Haut, in concorso, di Ursula Meier. O in quelli della bambina Annie, nella pellicola indipendente Kid Thing, presentato al "Forum", di David Zellner. Lasciata sola in una scuola chiusa per danni, Annie terrorizza i dintorni di Austin con azioni che sanno di follia e solitudine. L'esatto contrario del cinema celebrativo dell'infanzia. Sidney Aguirre, la protagonista, è l'esatto contrario del bambino prodigio al cinema. Capelli slavati (colorati?), occhi grandi occhiaie profonde. La relazione che nasce con la donna caduta in un pozzo in mezzo al bosco è disturbante, poetica e surreale. Questa è l'infanzia della Berlinale. L'estetica dell'abbandono. Lo stesso vale per Francine, di Brian M Cassidy sempre in "Forum", dove c'è la seconda antieroina del cinema indie made in USA: Melissa Leo che con il suo spiccato senso degli abissi umani ha già vinto un Oscar (The Fighter). E ancora una volta dipinge un ritratto perfetto del senso di inutilità. Uscita di galera cerca il contatto con il mondo. Non lo trova. Si rifugia in una assurdo ruolo-mondo di protettrice di animali randagi. Una misantropa è anche Sayoko nel giapponese Rentaneko (Panorama) di Naoko Ogigami. Anche lei compensa la solitudine con un giardino di periferia. Poetico e mostruoso, salvezza e abbandono diventano un unico tentativo di sopravvivenza. E poi il ruolo dell'uomo nel nuovo straziante lavoro di Werner HerzogDeath Row (sezione Special). In quattro ritratti l'abisso dell'uomo, la sua redenzione, il fallimento, la fine della speranza, la morte come momento centrale di una costellazione del dolore che lascerà un segno profondo nel cinema. Il volto Off del Festival di Berlino è quello che fa questo di questo Festival un momento unico e necessario. Perché se il cinema è sogno, anche in un vicolo cieco il sogno appartiene alla vita.

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