RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it

Flight

23 gennaio 2013

Flight

Robert Zemeckis si libera dalla motion capture e sforna un legal thriller kieslowskiano. Immenso Denzel Washington

A seguito di un guasto tecnico un aereo di linea con 102 passeggeri a bordo precipita nei dintorni di Atlanta. Sarebbero morti tutti se in cabina di pilotaggio non ci fosse stato l'esperto comandante Whip Whitaker (Denzel Washington), che grazie a una manovra spericolata riesce a limitare l'impatto salvando 96 vite. Nessun dubbio: Whitaker è un eroe, celebrato dalla stampa e acclamato dalla gente. Oppure no. L'NTSB (il National Transportation Safety Board) indaga sull'incidente e scopre che Whitaker è entrato in cabina di pilotaggio ubriaco. Scatta l'inchiesta.Dal disaster-movie al legal thriller, dal drama alla commedia umana, e poi: il caso e la necessità, la dipendenza e la libertà, la verità e la menzogna, la volontà e Dio. Flight di Robert Zemeckis somiglia a un kolossal hollywoodiano girato da Kieslowski, non risparmia su carico e carburante, va in picchiata, tiene incollato lo spettatore alla poltrona ma non cade: plana lieve semmai come la piuma di Forrest Gump, secondo traiettorie imprevedibili ma non casuali. Merito di una sceneggiatura di ferro, elastica abbastanza però da ammortizzare i continui cambi di passo e di umore del film. Rielaborando una vicenda personale, John Gatins consegna a Zemeckis uno script dove la carne al fuoco è tanta, non troppa; piena di trappole e potenziali vicoli ciechi, digressioni e personaggi, temi e provocazioni. E Zemeckis - finalmente rinsavito dopo le ossessioni in CG, Motion Capture e 3D che ne avevano segnato l'ultimo scorcio di carriera - ne fa buon uso, dosando da maestro modi, tempi e sottotesti.Flight è il suo primo film degno di nota da un decennio a questa parte, e non è un caso che l'avvenimento coincida con il ritorno in squadra del sodale Don Burgess, il grande direttore della fotografia che aveva mollato il regista subito dopo Cast Away e prima dell'era digitalizzata zemeckesiana (iniziata nel 2004 con Polar Express). Maneggiando con disinvoltura le minuscole cineprese digitali di nuova generazione (le Red Epic), Burgess ci regala alcune delle sequenze aeree più belle della storia del cinema, e ampliando la gamma prospettica dentro l'angusto spazio del velivolo riesce a trovare una quadra tra libertà di movimento (dello sguardo almeno) e senso di claustrofobia. Per il resto, la confezione è elegante ma non griffata.Eppure tutto questo sarebbe servito a poco se al servizio della storia e dell'eccellente team tecnico/artistico (per un budget di lavorazione comunque irrisorio: 31 milioni di dollari) non ci fossero stati interpreti in stato di grazia, capaci di conferire spessore e verità ai personaggi di carta.Su tutti Denzel Washington (per la prima volta diretto da Zemeckis), alle prese con un antieroe carismatico e indisponente a cui l'attore di colore offre tutta la grandezza e la vulnerabilità di cui è capace: il suo Whip Whitaker si ficca nella testa e nel cuore di ogni spettatore con un ventaglio espressivo impressionante, fatto di tic facciali, tumulti ottici e sfumature verbali; dimenandosi con naturalezza tra l'arroganza di un corpo imponente e l'improvvisa goffaggine che sembra assalirlo; debole e forte insieme dentro una scissione più ampia, quella tra immagine pubblica e coscienza di sè.Lungo il suo percorso di distruzione/redenzione, capita d'imbattersi nella delicata fragilità di Kelly Reilly, l'affidabilità di compagni di viaggio come Bruce Greenwood e Don Cheadle e la magistrale presenza scenica di John Goodman (che irrompe nella storia in camicia e shorts, occhiali da sole e Sympathy for the Devil degli Stones nelle orecchie: fantastico) e Melissa Leo, protagonisti di due ottimi camei. Molte le scene memorabili: dall'incipit shock in camera d'albergo alla lunga sequenza della caduta, dall'incontro tra Washington e la Reilly in ospedale (con il tramite di un malato terminale in vena speculativa) al decisivo confronto processuale.Peccato solo per i dieci minuti finali, inutilmente consolatori e didascalici, appannaggio forse del grande pubblico di casa.Che sembra non aver gradito comunque: pochi per un film del genere i 90 milioni incassati al botteghino americano.

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