RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it
03 novembre 2010
Kill Me, Please
Disperato, erotico, stop: Barco travolge tutti con una dissertazione (a)morale sul suicidio, che combina grottesco e tragico, kammerspiel e farsa: senza ritorno, in concorso
Probabilmente se Ferreri, Tati e Dreyer avessero potuto lavorare insieme avrebbero partorito l'ultimo film del concorso, Kill Me Please. Il francese Olias Barco tira fuori la giusta ironia dal massimo del grottesco, capendo bene la differenza tra l'essere presi sul serio e buttarla nel tragico. Che abbia snobbato il secondo è naturale conseguenza dell'amena umanità che popola la scena, aspiranti suicida in una clinica specializzata al trapasso (ci sarebbe da ridere se qualcosa di molto simile non fosse già sorto in Svizzera). La dirige un dottore col dono dell'impassibile affabilità , e dal nome di un gerarca nazista: Kluger. Un tecnocrate nonostante le menate sulla deontologia professionale, il rispetto del paziente, la dignità nella morte. La sua attività è pena capitale per gli altri, capitale e basta per se stessa, fruttando allo stato tasse e risparmi e milioni di dollari (secondo uno studio canadese ogni suicida costa allo stato 850 mila dollari). I benefattori sono loro: depressi cronici, falliti, malati terminali, bancarottieri, cialtroni. Un pozzo di San Patrizio per qualunque psichiatra, solo maschere di eterea vacuità per il film. E nonostante la disperazione sia il problema, la vita un disturbo e la morte da mandare giù con un bicchier d'acqua, Barco non trascende né s'affossa, perché non c'é morale dentro, né cieli stellati fuori: dentro e fuori si equivalgono, campo e fuoricampo sono vasi comunicanti, e ubiqua è (la pulsione di) morte.Kill Me Please è un dramma da camera che usa gli esterni come interni, e congela tutto nel bianco e nero di una vita scolorita e insensata. Ad agitarsi è l'ottusa fame di un desiderio che, quando non trova più qualcuno da divorare (succede ancora nella voglia di corpi da riempire, usare e infine richiudere, come cose in una bara), finisce per divorare l'ultima cosa che resta: se stesso. L'umorismo di Barco è isterico, fisiognomico e improvviso. Politico fino a un certo punto: è il capitale a produrre cannibali (di vita) o il contrario? E cos'è questa ossessione per la bella morte se non l'irrefrenabile vanità dell'ego, di una visione monca e monoculare (e chi non capisce la questione, come succede all'oppositore di Kluger, deve essere livellato agli altri e perdere un occhio), della vita ridotta a narcisistica recita, l'altro a mezzo e l'aldilà a palcoscenico? Tutti con "una storia" da raccontare (come l'uomo con la moglie persa a un tavolo da gioco), davanti allo specchio, con un finale da scegliere.C'è chi morirà col "vigor" mortis, chi da Rambo, chi in posa plastica. E c'è chi, infine, avrà la tanto desiderata platea per un'ultima, catarrosa esecuzione della Marsigliese: siamo noi, il pubblico in sala. Complici di un'oscena performance. Il sipario può chiudersi, la farsa è finita.
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