RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it

<i>Cirkus Columbia</i>

10 settembre 2010

Cirkus Columbia

Un giro di giostra con ironia prima dell'orrore: Danis Tanovic racconta ancora la Bosnia ferita, alle Giornate

Il giornalista-scrittore Ivica Dikic racconta, attraverso il ritorno a casa del sessantenne Divko, tutto ciò che ha preceduto la tragedia delle guerre nella ex-Jugoslavia. Danis Tanovic dirige Cirkus Columbia - presentato alle Giornate degli Autori - scegliendo quella stessa storia ‘leggera' per tornare a raccontare la Bosnia, la sua terra, in maniera diversa da come fece con No Man's Land che gli regalò l'Oscar e il premio come miglior sceneggiatore al Festival di Cannes del 2001.Sceglie di puntare tutto su personaggi ben definiti (protagonisti Miki Manojlovic e Mira Furlan, utilizzati in coppia già da Kusturica per Papà in viaggio d'affari), per raccontare la lenta e inesorabile focalizzazione su "un presente catapultato già totalmente nel futuro": siamo nella Bosnia Erzegovina del 1991, dove Divko Buntis, emigrato in Germania per vent'anni, torna da uomo ricco e potente a bordo di una mercedes con una giovane e bella fidanzata e Bonny, il gatto portafortuna della sua vita lontana da casa. Nel piccolo paese che da anni i suoi generosi contributi economici sostengono anche militarmente, vivono ancora la moglie che l'uomo crede averlo abbandonato (l'incomprensione tra Divko e Lucia è metafora dei ben più gravi fraintendimenti della storia nazionale) e il figlio."Il muro era caduto dall'altra parte - ha affermato con nostalgia Tanovic attraverso la voce di un suo personaggio - e tutti i paesi satelliti dell'area cadevano nel caos e nel film, con grande maestria, percepiamo in ogni dialogo il peso, già inconsciamente presente in ogni azione e decisione presa: quello che il crollo causò e anche quello che stava per accadere, la nuova era che stava arrivando e l'era che se ne stava andando. Il lento avvicinamento al figlio e alla realtà che ormai gli era estranea ma che all'inizio pensa di dominare da padrone, porterà Divko a rimettere in gioco molte delle sue certezze. Il suo perdersi sembra causato dalla perdita del gatto che genera una serie di situazioni comiche molto spassose, ma in realtà, come dimostra il finale, a Divko è tutto quello che il suo paese è diventato, quello che realmente è la milizia del fronte nazionale, a non piacergli.Nelle inquadrature del piccolo paese e dei suoi scorci contadini, negli sguardi dei paesani che ammirano Divko e la fidanzata, c'è la potenza del cinema italiano anni '50 che il regista ammette di aver voluto in una certa maniera omaggiare; come riconosciamo anche Bertolucci e Fellini in scene come quella della giostra o della perdita del gatto nero.Uno stile fresco, quello scelto da Tanovic per questa storia tragi-comica che forse - come si auspica l'autore - "può essere facilmente fruita da un pubblico giovane" perché il film aiuti i figli delle guerre a sapere che nella terra che loro conoscono solo come teatro di dolore e di morte, c'è stata vita e gioia prima dell'arrivo dell'orrore.

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