RECENSIONE FILM a cura di Cinematografo.it

<i>Agora</i>

22 aprile 2010

Agora

Il martirio pagano di Ipazia in un film a tesi. Amenabar azzecca le scenografie, ma forza la storia per l'ideologia

La figura geometrica che caratterizza Agora è il cerchio, la più perfetta di tutte. E' attorno al cerchio che si animano le raffinate disquisizioni della scuola neoplatonica nata attorno al Serapeo di Alessandria (IV secolo d.C.), dove si discetta di numeri e stelle, emicicli e moti planetari. Cerchio dove termina la volta del tempio pagano, segnato sulla sabbia (non c'erano le lavagne al tempo), ricomposto dalla schiera di discepoli che gravita attorno alla figura di Ipazia, la carismatica donna-scienziato protagonista del film di Amenabar. Ma al di là di geometrie e altissime elucubrazioni - peraltro ampiamente reinventate dagli sceneggiatori, che azzardano un' Ipazia anticipatrice di Galileo: non è l'unica forzatura storica della pellicola - il cerchio è il simbolo ideologico di un'armonia intellettuale ed esistenziale impossibile: perseguita dai fratelli di Ipazia (così lei chiama i suoi studenti), spezzata dai cavernicoli della Fede (così ce li restituisce Amenabar), non importa che siano pagani, ebrei o cristiani. L'assunto - ideologico anch'esso, questo è il paradosso - è che la filosofia e il sapere scientifico producono progresso umano, le religioni barbarie. E qui il cerchio si chiude. Lasciando però una voragine di dubbi sul film, peraltro accurato nella prima parte, dove è puntuale la ricostruzione delle tensioni del periodo - siamo al passaggio cruciale della storia, dall'antichità al medioevo - lacerato da correnti di pensiero e sommosse sociali, persino ammaliante nella resa scenografica (un mix di location reali e trucchi digitali) e nella scelta dei volti. Rachel Weisz è un'Ipazia adorabile. Ma poco credibile. Amenabar ne sacrifica complessità e profilo per ridurla a santino, finzione narrativa da sussumere nel proprio teorema interpretativo.Semplicistico e manicheo, il film si concede poche ma decisive licenze sulla storia, quando altera ad esempio la figura di Sinesio, ex allievo della donna e vescovo di Cirene, facendone una specie di simbolo dell'autoritarismo ottuso della Chiesa. Nel film vediamo Sinesio far inginocchiare il prefetto romano Oreste per assicurarsene l'obbedienza, e la scena precede di poco quella dell'uccisione di Ipazia: nella realtà Sinesio era morto due anni prima dell'amata maestra, e il suo profilo di cristiano mite e illuminato - testimoniato dalle sue stesse lettere e dagli storici del tempo - mal si concilia con la figura imperativa e senza dubbi proposta dalla finzione.Il problema è nelle intenzioni del film, che sposta il fuoco sugli intrecci rovinosi di potere spirituale e temporale oscurandone l'antefatto, il complesso retroscena teorico, dominato da diatribe filosofiche e tenzoni intellettuali, nello sforzo di trovare una sintesi tra Fede e ragione (questione che attraversa i secoli e arriva fino a noi, nel dialogo talvolta acceso che vede protagonisti uomini di Chiesa - Papa Benedetto XVI in primis - e intellettuali laici), un modello normativo nuovo per le trasformazioni in atto (la progressiva dissoluzione dell'Impero romano, l'espansione del cristianesimo, la crisi dei valori tradizionali). Senza questa cornice il quadro si sfalda, se ne perde il senso. La confusione genera facili associazioni: così i cristiani sono solo orde inferocite terrorizzate dalla libertà di pensiero (bisognerebbe chiedersi cosa avremmo detto del film se al posto dei cristiani avesse preso di mira altri gruppi religiosi), l'ampia elaborazione culturale del tempo viene strozzata e costretta nell'imbuto di una semplice, sordida lotta di potere; Ipazia stessa viene risolta nell'icona granitica di un'illuminista ante litteram, quando tutte le fonti storiche ne sottolineano invece una profonda tensione spirituale coniugata al fervido intelletto. Al suo martirio - che è avvenuto, non va dimenticato, e di fronte al quale i cristiani (seguendo la strada tracciata già da Papa Giovanni Paolo II) non possono coprirsi gli occhi - finisce per mancare l'autentica adesione emotiva perché sull'altare ci finisce l'idea caldeggiata dal film, non la persona. Con buona pace del cerchio di Amenabar, troppo semplice e perfetto per contenere la rognosa complessità della vita.

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