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Recensione

10 Apr 2008

Shine a Light

a cura di Cinematografo.it

Scorsese immortala il concerto degli Stones al Beacon Theatre di New York. È la rinascita del rockumentary


Il rockumentary é morto. Evviva il rockumentary. Martin Scorsese riesuma la salma di un genere in voga quando l'oggetto dell'analisi filmica era il rock and roll: la musica per eccellenza. Oggi c'è il pop rock, un vino allungato con l'acqua, che ad ogni cambio di palco sa di evento posticcio e di obbligato tributo al dio del commercio. Non che i Rolling Stones non pensino al conto in banca, ma la magica combinazione tra il loro suono e il pacchetto dal vivo che propongono sembra sempre più una naturale propaggine del loro essere artisti, più che un'invenzione di famelici discografici. In Shine a Light, evento di apertura del festival di Berlino numero cinquantotto, c'è in scena tutto il repertorio del gruppo inglese, nel doppio concerto registrato al Beacon Theatre di New York due anni fa. Repertorio inteso come configurazione di un evento mediatico senza fine, ossessivo, ripetuto, riproposto di continuo (nell'ultimo decennio ad ogni album segue un'immancabile tour). Scorsese lo filma con la puntualità del suo peculiare lirismo poetico, rispettando la sacralità e la distanza dal mito e dall'icona in movimento sul palco. Celebra il trionfo dell'attualissima diabolicità dei sulfurei riff della chitarra di Richards, i saltelli con passetto strascicato di Jagger, la solida mobilità del tempo battuto morbidamente dalla bacchette di Charlie Watts, l'armonia dell'intreccio della chitarra ritmica di Ronnie Wood. E lo fa procurandosi prima di tutto uno stuolo di collaboratori tecnici da far impallidire il cassiere della Paramount Pictures che produce. Sedici macchine da presa, una ventina di operatori tra cui una lista di direttori della fotografia da paura: Robert Richardson (The Aviator, JFK), John Toll (L'ultimo samurai, Braveheart), Andrew Lesnie (Il signore degli anelli, King Kong), Stuart Dryburgh (Lezioni di piano, Il velo dipinto), Robert Elswit (Il mistero di Sleepy Hollow, Il petroliere) e Ellen Kuras (Summer of Sam, Se mi lasci ti cancello). Dettaglio non da poco, che dimostra l'evoluzione della tecnica nel cinema di Scorsese, sempre più attento a non farsi sfuggire nulla rispetto a ciò che gli accade sotto gli occhi. Una sorta di insicurezza creativa (nel farsi, non nel risultato finale) che in qualche modo lo ha segnato nel suo ultimo periodo di carriera. La meticolosità nel mettere in scena è una sua caratteristica che in Shine a Light si fa vezzo quasi bizzoso. Basti pensare al confronto con il ruspante The Last Waltz (1978), in cui Scorsese filmava con estrema grazia, ma non certo con sedici operatori di macchina, l'ultimo concerto della Band di Robbie Robertson. Shine a Light a confronto è un viaggio su Marte con lo shuttle dagli esiti galattici che, superata l'insicurezza, s'inscrive diretto nel Dna di un regista postmoderno che ha riscritto molte regole teoriche del cinema: mai uno zoom verso gli Stones, mai una discrepanza in montaggio che azzoppa l’amalgama tra dettagli, primi piani e figure intere anche quando Jagger improvvisamente corre letteralmente in mezzo al pubblico. Dopo nemmeno venti minuti la macchine da presa che rimbalzano doverosamente in campo non danno più fastidio, tale è la compattezza dell’immagine tra la dinamicità del movimento di macchina e la performance del gruppo. Nessuna soluzione psichedelica o trambusto lisergico datato: Shine a Light è anche la conferma della crescita e dalla statizzazione del sound granitico degli Stones e la contemplazione magica e adulta delle loro reali radici blues.Per la recensione completa leggi il numero di Aprile della Rivista del Cinematografo

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