La buca2014

SCHEDA FILM

La buca

Anno: 2014 Durata: 90 Origine: SVIZZERA Colore: C

Genere:COMMEDIA

Regia:Daniele Ciprì

Specifiche tecniche:-

Tratto da:-

Produzione:ALESSANDRA ACCIAI, GIORGIO MAGLIULO, ROBERTO LOMBARDI, VILLI HERMANN PER MALÌA, CON RAI CINEMA, IMAGO FILM, RSI RADIOTELEVISIONE SVIZZERA, SRG SSR

Distribuzione:LUCKY RED

 

MONTAGGIO

Franchini, Giogiò
 

SCENOGRAFIA

Dentici, Marco
 

COSTUMISTA

Colombini, Grazia
 

EFFETTI

Reset Vfx

TRAMA

Oscar è un burbero avvocato sempre in cerca di qualche truffa da poter mettere in atto grazie alla sua conoscenza delle leggi. Così, dopo essere stato morso da un cane, Oscar decide di trarre profitto dall'incidente facendo causa ad Armando, il malcapitato proprietario dell'animale. In realtà, però, Armando è un povero disgraziato che è appena uscito di prigione dopo aver scontato ingiustamente una pena di 30 anni. Oscar ha un'illuminazione: perché non unire le loro forze e fare intentare una causa milionaria?

CRITICA

"La chiave del grottesco non è stata molto usata nel cinema italiano. Vengono in mente i film di Augusto Tretti, qualche cosa di Caprioli ('Splendori e miserie di Madame Royale', e non tutto), alcuni episodi di Risi (nei 'Mostri', nuovi e vecchi), certo Sordi (per esempio 'Elogio funebre' di Scola, sempre nei 'Nuovi mostri'), ma non ci fossero stati «Cinico Tv» e i film successivi di Maresco e Ciprì, si potrebbe dire che il cinema grottesco da noi ha attecchito poco o niente. E invece i due registi palermitani, insieme o da soli, hanno continuato a sfruttare questa chiave per raccontare le loro storie. Soprattutto Daniele Ciprì, che dopo 'È stato il figlio' cambia personaggi e ambientazione ma conserva (e addirittura ingigantisce) l'approccio grottesco per filmare 'La buca'. Certo, per lo spettatore abituato a un realismo più o meno quotidiano, ammorbidito magari da un po' di ironia o di sorriso, questo tono così carico e farsesco può rappresentare un ostacolo non secondario per farsi coinvolgere nella storia filmata: il grottesco esclude qualsiasi tipo di immedesimazione e chiede a chi guarda un percorso di decostruzione più complesso, capace di andare al di là delle apparenze, che per loro natura tendono ad «allontanare» piuttosto che ad «avvicinare» chi guarda e chi è guardato. Ma una volta superato questo ostacolo, il risultato può essere decisamente interessante, perché quella chiave aiuta a mettere in evidenza una specie di deforme antropologia italica, perfetta per raccontare i vizi meno confessabili della nostra società. Come quelli dell'avvocato Oscar, eternamente in cerca di imbrogli da mascherare con cause truffaldine e a cui Sergio Castellitto offre una rappresentazione abilmente sopra le righe, fatta di cinismo, malafede e melliflua eloquenza. Una trappola dentro cui cade più o meno involontariamente l'ex carcerato Armando (Rocco Papaleo, grottescamente stralunato) (...). Percorso difficile e accidentato che Ciprì racconta continuando a utilizzare la chiave del grottesco, sia quando accentua con tono surreale le caratteristiche dei vari personaggi sia quando trascolora la scenografia accentuandone gli elementi antirealistici: da una parte l'evidente utilizzo di location da studio o comunque «irreali» anche in esterni (come la neve che copre un paesino svizzero con la stessa perfezione di un disegno animato) e dall'altro scegliendo una luce ambrata e quasi astratta, più vicina ai toni di una graphic novel che alla tradizione della commedia. L'ambizione dichiarata di Ciprì, infatti, è quella di trovare una strada espressiva aggiornata ai nostri tempi ma capace di recuperare lo spirito critico e caustico della commedia all'italiana anni Sessanta, quella costruita sui grandi mattatori (e non è un caso se Castellitto ricorda in più di un'espressione il Gassman più scatenato e farsesco). Ambizione che il film, sceneggiato dal regista con Alessandra Acciai (...), Massimo Gaudioso e Miriam Rizzo, riesce a realizzare non completamente. E proprio per «colpa» - diciamo così - di quel tono grottesco che ne doveva sottolineare la specificità. Perché se quella chiave funziona (e bene, anche) quando serve a tratteggiare i due protagonisti, le loro debolezze e le loro untuosità, finisce per diventare ridondante quando viene applicata a tutti i personaggi e le situazioni del film. C'è come un eccesso di grottesco nell'universo raccontato da Ciprì, che finisce per sommergere tutto, anche l'ambizione di chi ridendo 'castigat mores'. Per Ciprì è tutto il mondo che sprofonda nella farsa." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 23 settembre 2014) "C'è da divertirsi a immaginare i confronti, le fonti di ispirazione e di suggestione. Il torvo e cinico personaggio vestito (in principe di Galles) da Sergio Castellitto può sembrare un Sordi di quelli più infami, quello di 'Piccola posta' di Steno per esempio che confeziona truffe ai danni delle vecchiette. Mentre i personaggi di Rocco Papaleo e Valeria Bruni Tedeschi potrebbero uscire da un film di Wes Anderson, così sognanti e démodé. E non è un esercizio arbitrario. Lo stesso regista del film 'La buca', Daniele Ciprì, favorisce l'esercizio quando dichiara la sua ammirazione per tutti i campioni della commedia italiana e di quella americana classica, ricordando De Sica, Risi, Monicelli, e poi di Lubitsch, Capra, Wilder, Blake Edwards. Non la commedia contemporanea. Ma ancora di più quando rivela che il grande desiderio, nel concepire 'La buca', era quello di creare una coppia maschile di personaggi e di interpreti che ricordasse la grandezza e l'affiatamento tra Jack Lemmon e Walter Matthau: rispettivamente rispecchiati in Papaleo e Castellitto. E aggiunge un altro ideale modello di coppia, Gassman e Mastroianni, pensando forse a 'I soliti ignoti'. O, chissà, al progetto iniziale di un film che Ettore Scola ha realizzato molto tempo dopo, 'Concorrenza sleale' (c'è anche qualche assonanza tra i due set), con Abatantuono e proprio Castellitto, ma era stato pensato per due grandi attori della generazione precedente. Ecco, però, più che un univoco riferimento ai canoni della migliore commedia italiana e americana, sembra piuttosto che sia un certo gusto del pastiche a dominare la scena. (...) Il siciliano Ciprì è stato per una lunga stagione la metà di una coppia, con Maresco. Ma è stato ed è anche uno dei migliori artisti della fotografia che abbiamo in Italia. Infine si è cimentato con la regia. Questa, dopo 'È stato il figlio', è la seconda. Il gusto dell'immagine e della luce (come anche della scenografia e dei costumi, ma anche della musica con interventi di Pino Donaggio e Stefano Bollani) esercita un peso molto importante. L'originalità dello sguardo non è in discussione - Ciprì ha molta personalità, anche nell'aver cambiato rotta dal grottesco al sentimentale - tuttavia mentre la storia scorre si avverte un progressivo imporsi del contenitore sul contenuto, se è consentito dirlo in maniera un po' sommaria, del compiacimento estetico in tutti i sensi (cura di luce e colore, specialità di Ciprì, ambienti e costumi e atmosfere, ma anche l'attenzione alle movenze e ai tic di Castellitto) che tende a diventare un valore in sé." (Paolo D'Agostini, 'La Repubblica', 22 settembre 2014) "Un soggetto quasi chapliniano, con due poveri diavoli diversi in tutto uniti dal caso e dall'affetto di un cane. Un'ambientazione astratta e senza tempo, tra il fumetto e il Jeunet di 'Amélie' (ma senza una città-mito come Parigi sullo sfondo a fare da bussola). Una recitazione sempre caricata, al limite del grottesco. E un sottofondo 'morale' (...) che dovrebbe rimandare a certa commedia italiana. Anche se la strana coppia Castellitto-Papaleo allude vistosamente a quella Lemmon-Matthau. E gli inserti in animazione sanno d'America più che di Italia, anche se il tema, sembra di capire, sono il cinismo, la corruzione, l'indifferenza di casa nostra. Non c'è che dire. Se Ciprì voleva stupirci e cambiare completamente 'mondo' cinematografico, c'è riuscito. Che poi l'esperimento sia anche felice è un altro discorso. Dopo il grottesco 'nero' di 'È stato il figlio', qui siamo infatti in un mondo quasi rosa che sfuma (ma non cancella) brutture e nequizie con una luce morbida come lo sguardo di Valeria Bruni Tedeschi, la generosa barista pronta a mediare fra quelle due solitudini unite dal caso (e anche a dare qualche spiegazione a noi in platea, abbastanza disorientati). Ma tutta la ricercatezza stilistica, il divertimento cinefilo e quello musicale non bastano a scaldare davvero un film che cerca ostinatamente un punto d'ancoraggio per non dissolversi in aria come una nuvola di fumo. C'è un passato dietro la storia di Papaleo, un'infanzia, un amore, una delusione lancinante, ma 'La buca' è troppo prigioniero del suo stile per dar corpo a questo sentimento. C'è una paradossale umanità, per quanto soffocata e presa a calci dal personaggio, anche dietro le mattane dello strepitoso Castellitto (survoltato in stile Giannini più che Gassman). Ma il film sembra perdere di vista l'insieme e procedere scena per scena, numero dopo numero. Con pezzi anche esilaranti (come il fotografo paranoico, o il giudice distratto) ma sempre 'dimenticandosi' un po' dei suoi personaggi. E forse anche di noi." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 25 settembre 2014) "Curioso che nelle note di regia in margine a 'La Buca', Daniele Ciprì citi come ideali modelli di riferimento la commedia all'italiana Anni 60 e quella sofisticata da Lubitsch a Blake Edwards, lasciando fuori la commedia francese. Perché si avverte un'aria parigina in questo suo secondo film (...). Ambientata in una cornice cittadina immaginaria, scandita quasi fosse un musical dalla colonna sonora romantico/brillante di Pino Donaggio e Zeno Gabaglio, la commedia è imbastita con finezza, ma come bloccata in un limbo di astratto manierismo." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 25 settembre 2014) "Un film «in vinile», che si pone fuori dal tempo e dallo spazio, ma con un messaggio ancora attuale. Parla di malagiustizia, furbizia e non solo il secondo film che Ciprì ha girato, ancora una volta, senza Maresco (dopo il brillante esordio con 'E stato il figlio'). Non sappiamo se questa separazione artistica sarà definitiva, ma è certo che Ciprì ha mostrato, in queste due pellicole, di non soffrire di solitudine. Anzi, con 'La buca' riafferma il suo stile grottesco di raccontare la realtà quasi fosse una favola, con grande personalità, mischiando, da par suo, generi cinematografici (la commedia, il dramma, il giallo) diversi tra loro, pur con i rischi inevitabili di una simile scelta artistica. Non tutto fila liscio, infatti, con un ritmo che viene, in alcuni momenti, poco opportunamente spezzato, dilatando la sensazione della durata del film. (...) Se da una parte il film è confezionato in modo gradevole, supportato da una fotografia che da sola vale il prezzo del biglietto, dall'altra soffre per personaggi troppo condizionati e per una trama che poco appassiona lo spettatore. La satira perde, poi, il suo sapore, annacquata da «trovate» comiche non sempre efficaci." (Maurizio Acerbi, 'Il Giornale', 25 settembre 2014) "Alla sua seconda prova da 'single', Ciprì riprende il filone fiabesco per raccontare estratti di umanità sopra le righe, seppur di chiara marginalità socio-esistenziale. Se il territorio tematico è quello dell'Italietta dei piccoli imbroglioni, di quella mediocrità etica da sempre imperante, quello stilistico adotta l'evocazione del grande cinema degli Anni 30, rimescolando Chaplin e lo slapstick alla tradizione della commedia all'italiana. Ne esce una fotografia (da lui stesso ovviamente curata) ambiziosa e d'indubbia personalità che tuttavia solo a tratti soddisfa l'obiettivo." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 25 settembre 2014) "Spiacerà a chi è abbastanza vecchio per ricordare i vecchi fasti della commedia all'italiana e immagonirà al pensiero di cosa avrebbero cavato da un soggetto simile un Gassman, un Sordi, un Manfredi. Papaleo e Castellitto sono bravi ma non sanno arruffianarsi il pubblico. E Ciprì non sa raccontare l'Italia del nuovo secolo." (Giorgio Carbone, 'Libero', 25 settembre 2014) "Riusciranno i nostri eroi a dimostrare che lo Stato è colpevole di errore giudiziario e ottenere risarcimenti milionari? Un paio di decenni di commedia italiana, da Risi alla Wertmüller, da Monicelli a Scola, filtra nel neo grottesco di Ciprì che, perduta la cinica tv di un biforcuto sguardo lucidissimo col compare Maresco (...) parte a caccia di un linguaggio adatto a raccontare l'Italia (...). Avvocato truffaldino, tra Gassman e Giannini gioca all'erede un ribaldo, a volte ispirato, Castellitto. Succube ex carcerato con cagnetto, Papaleo a volte echeggia un Tognazzi incredulo. Alti e bassi al cuor di truffa, quando il duo si apre al trio (la Bruni Tedeschi) e al corale si gira a vuoto." (Silvio Danese, 'Nazione - Carlino - Giorno', 26 settembre 2014)

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