SCHEDA FILM

C'era una volta un re - La película del rey

Anno: 1986 Durata: 107 Origine: ARGENTINA Colore: C

Genere:COMMEDIA, STORICO

Regia:-

Specifiche tecniche:NORMALE

Tratto da:-

Produzione:CARLOS SORIN CINE

Distribuzione:MOTION PICTURE (1987)

TRAMA

David, giovane regista degli anni '70, s'intestardisce a mettere sullo schermo la storia di Orélie Antoine de Tounnens, un avventuriero francese che nel 1860 marciò verso l'estremo sud dell'America Latina, autoproclamandosi re di Araucania e Patagonia, e concludendo miseramente in manicomio la propria folle impresa. Abbandonato in partenza dalla produzione e sostenuto unicamente dal produttore esecutivo, il fedelissimo Artur, David mette insieme una troupe raccogliticcia e si avventura caparbio in una terra ostile, battuta incessantemente dal vento per girare il suo film nel modo più realistico possibile. Per l'assoluta inospitalità dell'ambiente e l'infuriare degli elementi, David perde via via tecnici e attori, fino a ridursi a interpretare alla fine personalmente, tutto solo, il grottesco eroe, circondandosi di una troupe di manichini. Reduce dalla sconfitta, sull'aereo che lo riporta a casa, David confida al fedele Artur l'intenzione di affrontare al più presto un soggetto altrettanto folle e avventuroso, quello sul Falso Inca del Seicento.

CRITICA

"Dopo una parte in cadenze di commedia che descrive la preparazione e le prime vicissitudini di lavorazione, l'azione diventa sempre più drammatica, allucinata e visionaria nel parallelismo tra il folle progetto del personaggio e l'appassionato accanimento del regista nel continuare la sua impresa contro tutto e tutti. Dopo la defezione del finanziatore, disertano le comparse, ma il regista le sostituisce con un gruppo di manichini, facendo di necessità virtù (surrealista). Quando anche l'attore protagonista non pagato, dà forfait, il regista prende il suo posto. La polizia arresta i superstiti, ma la smania di far cinema non si spegne: 'Beati gli audaci perché loro sarà il regno del cinema'. Nella sua immaginifica incontinenza latinoamericana il film non manca di simpatia, ma non sempre la sregolatezza è genio e non è Herzog chi vuole. Attraversando i vari registri narrativi - dall'umoristico al drammatico e all'onirico - il film procede a sobbalzi come un'auto potente dalla frizione veloce guidata da un pilota che non sa controllarla. Con un occhio che ammicca furbescamente al successo e l'altro che punta sul film d'autore, Sorin è un manierista di scarso affidamento." (Morando Morandini, 'Il Giorno', 24 Aprile 1987) "Un gioco di incastri che, forse, non è nuovissimo, ma che arriva a divertire con franchezza, specie all'inizio, nei momenti che illustrano la preparazione del film, i progetti di ripresa, la scelta dell'attore protagonista, indebolendosi un po' quando al posto di quel gustoso dietro le quinte si sostituiscono le pagine del girato vero e proprio con Orélie in primo piano senza autentiche ispirazioni di sceneggiatura. Ma con nuovi vigori espressivi nel finale di echi visionari e densi riferimenti pittorici nella folla dei manichini tanto vicina a De Chirico. Le motivazioni più autentiche, in questo patchwork stravagante, sono tutte negli ostacoli e negli inconvenienti che punteggiano la storia, disegnando un tracciato di seconda lettura; il guaio peggiore, per la troupe già mezzo mutilata, è la fuga del produttore: attraverso la quale il bravo Sorin, citando il Wenders dello 'Stato delle cose', riesce perfino ad interrogarsi - a modo suo, si capisce - sulle sorti del cinema." (Claudio Trionfera, 'Il Tempo', 1 Aprile 1987) "In quella regione desolata, a contatto con le proprie visioni e col fantasma di Orélie, a un filo dal far incontrare l'uno e le altre, subirà l'ostilità dei pochi abitanti, la defezione degli attori, lo sfratto della polizia. Ma il cinema è più duttile della Storia, sull'aereo di ritorno lo sconfitto progetta un film sul 'falso Inca' Pedro Bohorquez che nel Seicento sollevò le tribù dei Calchaquies contro gli spagnoli. La situazione di un film di Wenders, la grandiosità di un film di Herzog, la testardaggine di un debuttante. La dote maggiore di Sorin (si pensa, per contrasto, alle fragilità di tanti esordienti italiani) è la capacità di non perdere slancio, la voglia di veder grande. Così l'ennesimo film sul cinema, l'omaggio indiretto ai maestri del cinema visionario, diventano un atto di fede non presuntuoso. Quando si rischia, pensa Sorin, è meglio che la posta sia alta, se uno ha incrollabilmente il vizio di giocare." (Stefano Reggiani, 'La Stampa', 31 Maggio 1987)

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