Anno: 1973 Durata: 125 Origine: FRANCIA Colore: C
Genere:COMMEDIA, DRAMMATICO
Regia:Federico Fellini
Specifiche tecniche:PANORAMICA - TECHNICOLOR
Tratto da:un'idea di Federico Fellini
Produzione:FRANCO CRISTALDI PER F.C. PRODUZIONI (ROMA), P.E.C.F. (PARIGI)
Distribuzione:DEAR (1973); IL CINEMA RITROVATO-CINETECA DI BOLOGNA (2015) - WARNER HOME VIDEO, L'UNITA' VIDEO (GLI SCUDI)
Bruno Zanin | nel ruolo di | Titta Biondi |
Pupella Maggio | nel ruolo di | Miranda, la madre di Titta |
Armando Brancia | nel ruolo di | Aurelio, padre di Titta |
Stefano Proietti | nel ruolo di | Oliva, il fratello di Titta |
Giuseppe Ianigro | nel ruolo di | Il nonno di Titta Peppino Janigro |
Nando Orfei | nel ruolo di | Il "Pataca", zio di Titta |
Ciccio Ingrassia | nel ruolo di | Teo, lo zio matto |
Magali Noël | nel ruolo di | La "Gradisca" |
Luigi Rossi | nel ruolo di | L'avvocato |
Maria Antonietta Belluzzi | nel ruolo di | La tabaccaia |
Josiane Tanzilli | nel ruolo di | La "Volpina" |
Domenico Pertica | nel ruolo di | Il cieco di Cantarel |
Antonino Faà Di Bruno | nel ruolo di | Il conte di Lovignano |
Carmela Eusepi | nel ruolo di | La figlia del conte |
Gennaro Ombra | nel ruolo di | Biscein |
Gianfilippo Carcano | nel ruolo di | Don Balosa |
Francesco Maselli | nel ruolo di | Bongioanni, professore di scienze |
Dina Adorni | nel ruolo di | De Leonardis, prof. di matematica |
Francesco Vona | nel ruolo di | Candela |
Bruno Lenzi | nel ruolo di | Gigliozzi |
Lino Patruno | nel ruolo di | Bobo |
Armando Villella | nel ruolo di | Fighetta, prof. di greco |
Franco Magno | nel ruolo di | Il preside Zeus |
Gianfranco Marrocco | nel ruolo di | Il conte Poltavo |
Fausto Signoretti | nel ruolo di | Il vetturino Madonna |
Donatella Gambini | nel ruolo di | Aldina Cordini |
Fides Stagni | nel ruolo di | La prof. di belle arti |
Fredo Pistoni | nel ruolo di | Colonia |
Marcello Di Falco | nel ruolo di | Il principe |
Bruno Scagnetti | nel ruolo di | Ovo |
Alvaro Vitali | nel ruolo di | Naso |
Ferdinando De Felice | nel ruolo di | Marconi, detto Ciccio |
Carla Mora | nel ruolo di | La cameriera Gina |
Aristide Caporale | nel ruolo di | Giudizio |
Ferruccio Brembilla | nel ruolo di | Il gerarca |
Mauro Misul | nel ruolo di | Professore di filosofia |
Mario Silvestri | nel ruolo di | Professore di italiano |
Marcello Bonini Olas | nel ruolo di | Professore di ginnastica |
Mario Nebolini | nel ruolo di | Il segretario comunale |
Vincenzo Caldarola | nel ruolo di | Il mendicante |
Mario Liberati | nel ruolo di | Proprietario del Fulgor |
Fiorella Magalotti | nel ruolo di | Sorella della "Gradisca" |
Mario Milo | nel ruolo di | Fotografo |
Antonio Spaccatini | nel ruolo di | Il federale |
Bruno Bartocci | nel ruolo di | Il carabiniere che sposa la "Gradisca" |
Marina Trovalusci | nel ruolo di | La sorellina della "Gradisca" |
Marco Laurentino | nel ruolo di | Il mutilato della Grande Guerra |
Riccardo Satta | nel ruolo di | Il sensale |
Clemente Baccherini | nel ruolo di | Proprierario caffè commercio |
Costantino Serraino | nel ruolo di | Gigino Penna Bianca |
Francesco Di Giacomo | nel ruolo di | Grasso barbuto al seguito dell'Emiro |
A Borgo, un immaginario paesino della Romagna, tra il 1930 e il 1935, l'adolescente Titta cresce subendo condizionamenti dentro e fuori l'ambito domestico. Suo padre Aurelio è un piccolo impresario edile perennemente in discordia con la moglie Miranda; zio Pataca vegeta alle spalle dei parenti; zio Teo è ricoverato in manicomio; il nonno si gode egoisticamente una salute di ferro, non trascurando di prendersi delle libertà con la domestica. Nella cittadina emergono alcuni personaggi destinati a diventare parte dei ricordi adolescenziali di Titta: la "Gradisca", una procace parrucchiera; Volpina una ragazza un po' scema e priva di freni inibitori; una tabaccaia mastodontica, quasi mostruosa; un avvocato dalla retorica facile e magniloquente; Giudizio, il matto del villaggio; Biscein il bugiardo; il motociclista esibizionista e tutta una galleria di personaggi che, agendo nel mondo della scuola, della chiesa, e nelle feste fasciste, nelle celebrazioni folcloristiche o negli avvenimenti eccezionali, rivelano caratteristiche bislacche. Le stagioni trascorrono inesorabili, scandite dal cadere della neve o dalle "manine" staccatesi dai primi fiori primaverili. E' il momento di diventare grandi...
"La sorpresa di Amarcord consiste nel fatto che tra le righe non si riesce a leggere quasi nulla. Fellini fruga qua e là nel passato, ma sembra non voler trinciare giudizi. Probabilmente il film va letto in una chiave rovesciata rispetto a quella che viene spontaneo usare. Forse Fellini, mentre mostra di annegare nei ricordi, vuol farci capire che il passato in realtà non esiste se non nella nostra fantasia. Forse la frustata è diretta non tanto sul mondo di ieri, quanto sull'abitudine che abbiamo di dargli una credibilità che va oltre i limiti della nostra povera memoria. Ma se i ricordi sono amari e confusi, se perdono sapore e colore, se non hanno senso, se sono indecifrabili, il discorso diventa attuale. L'attenzione si sposta sulla coscienza dell'uomo contemporaneo, sull'oggi. Ma qui Fellini si ferma rigorosamente". (Sergio Trasatti, "L'Osservatore Romano", 20 dicembre 1973) "Fellini gioca in economia. Adopera i residui di stoffe già esibite al pubblico, frammenti di un discorso che, in fondo, è già stato fatto. Qualche scampolo ha colori vivi e guizzanti (il nonno nella nebbia, per esempio, e la mucca che diventa, agli occhi del bambino che va scuola, un mostro mitologico); qualche altro è sbiadito a causa del tempo e della polvere; qualche altro ancora, infine, poteva essere mandato al macero". (Franco Bolzoni, "Avvenire", 19 dicembre 1973) "E quindi, certo, è possibile all'artista quando è tale, e quando è Fellini, crearsi dei finti ricordi per cacciare quelli veri: e, per rafforzare la finzione, costruirsi un luogo immaginario, nella prediletta Cinecittà, e una lingua che è una specie di miscuglio fra l'emiliano e il romagnolo, anche con qualche pizzico di accenti limitrofi. E però il sospetto che quei ricordi siano veri, tutti o quasi, riemerge nel vedere come Federico li rievoca. Perché li rievoca con pudore, sempre attento a non gonfiarli troppo, a non strizzarli fino a farne uscire l'ultima, spettacolare goccia, limitando al massimo il surreale, un paio di sequenze e nemmeno le più riuscite, contrariamente al solito, e su tutto il resto ammorbidisce, sfuma, attenua. Non rinunciando al popolaresco, a qualche paesana grossolanità, ma senza mai spingere a fondo nemmeno in questa direzione". (Paolo Valmarana, "Il Popolo", 19 dicembre 1973) "Molte delle inquadrature di Amarcord sembrano l'edizione per così dire critica del 'kitsch' fascista, della sua iconografia rurale, della sua propaganda industriale, colta nel momento piccolo-borghese, con la cultura delle nostre zone depresse. Forse solo Il conformista, prima di Amarcord, ci aveva restituito un fascismo visto così dall'interno, al di fuori delle solite, oziose decalcomanie. E' utile aggiungere che il film funziona anche sul piano del puro e semplice spettacolo e che tutto vi è al proprio posto: a cominciare dal numeroso stuolo degli attori, noti e sconosciuti, professionisti e occasionali (con particolare riguardo al folgorante intermezzo di Ciccio Ingrassia, nel ruolo dello zio pazzo). Rispettiamolo, dunque questo "Amarcord": questo film intenzionalmente modesto, ma molto più realizzato, concluso di tante altre opere felliniane, partite con maggiori ambizioni". (Callisto Cosulich, "Paese sera", 19 dicembre 1973) "La visione di Fellini, s'è accennato, è amarognola, agrodolce. L'infanzia di Titta non è stata una festa: liti in famiglia, nonno svagato che tocca il sedere della fantesca (sembra una vignetta di un altro romagnolo, Leo Longanesi), zio tocco di mente che, portato in gita dai parenti, si arrampica su un albero gridando: «Voglio una donna!», fascisti tronfi, insegnanti mediocri e retorici, la Volpina che, forastica, si avventura furtiva lungo i muri del borgo in cerca di qualche cosa, e la tabaccaia dalle forme abbondanti che cerca invano soddisfazione dal troppo giovane Titta. Federico Fellini ha evocato con maestria un universo di fantasmi, tirati fuori dalle tasche del tempo senza allegria né ferocia, in un'operazione mentale alla fine elegiaca". (Pietro Bianchi, "Il Giorno", 19 dicembre 1973) "In un calcolatissimo impasto di toni gravi e lievi, con svolte improvvise nel beffardo e nel fumetto, così Amarcord cresce e tempera le ombre, le smargina d'ogni scoria verista, e le muove nel grembo della leggenda. Intrecciati ai timbri d'argento, alle risate a piena gola, i rintocchi della malinconia minacciano d'avere il sopravvento. La trappola della memoria è scattata ancora una volta? In realtà siamo feriti, ma salvi. Forse il Pinocchio che è in noi esce dal buio, smette i calzoni alla zuava e brucia con i ricordi il suo mondo piccino. Tutta la sua vita, domani, sarà una lotta contro il Borgo, contro la tentazione di rifugiarsi nel tepore dei miraggi. Aiutato nella sceneggiatura dal conterraneo Tonino Guerra, col quale ha anche firmato un libro in cui, ma da lontano, si respirano i fatti del film, dallo scenografo Danilo Donati, dal fotografo Giuseppe Rotunno, dal musicista Nino Rota, da attori quasi tutti sconosciuti, il cantastorie Federico Fellini ha detto con Amarcord, sull'Italia degli anni fascisti, forse più e meglio di tanti storici di professione. Dobbiamo essere grati al suo talento. Dobbiamo sperare che i nostalgici, confrontandosi col passato, misurino l'abisso di puerilità, di appetiti repressi, di smanie e cafonerie in cui naufragarono, petti in fuori e pancia in dentro. E anche i giovani ne ridano, ne ridano, ne ridano, con un'unghia di pietà per i loro padri indifesi". (Giovanni Grazzini, "Corriere della sera", 19 dicembre 1973) "Il regista non è andato al fondo della sua ricerca del tempo perduto, non ha fatto i conti con la propria adolescenza, con le sue ossessioni private e con i suoi condizionamenti pubblici, civili, sociali, politici, religiosi, come, in Roma, non li aveva fatti con la propria giovinezza. Perché i conti si fanno al presente. Nel suo primo progetto, che deve avere resistito, per un po', anche durante la lavorazione, e infine è stato abbandonato. Amarcord era la vicenda di un uomo il quale si lascia invadere dai ricordi (L'uomo invaso sarebbe stato il titolo), come da una droga che si vorrebbe benefica, ma che si rivela letale. La vicenda, insomma, criticamente prospettata, di un uomo in fuga dalla realtà, dall'oggi. Amarcord, quale ora lo vediamo, ha un respiro più ristretto, ambizioni meno alte. Fellini, se ci si consente la metafora sportiva, gioca sul proprio campo, con un avversario ben conosciuto, e quasi addomesticato: quell'universo provinciale di ieri ritratto certo con gusto, spesso con acutezza, trapunto di citazioni dalle opere precedenti dell'autore, con l'insidia della civetteria e del manierismo sempre in agguato; la sua magia evocativa, già sperimentata, non riesce, o riesce solo in parte, a suscitare un confronto tra passato e presente, un qualsiasi rapporto dialettico". (Aggeo Savioli, "L'Unità", 19 dicembre 1973) "Amarcord: «Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta. Nei tempi stretti delle nostre vite tutto resta lì, angosciosamente presente; le prime immagini dell'eros e le premonizioni della morte ci raggiungono in ogni sogno; la fine del mondo è cominciata con noi e non accenna a finire; il film di cui ci illudevamo d'essere solo spettatori è la storia della nostra vita". (Italo Calvino) "Quel che ha giovato a Fellini, stavolta, è stato forse il defilarsi un poco rispetto all'argomento, il mettersi in una posizione di autobiografismo non più diretto come ne I vitelloni, ne La dolce vita, in Otto e mezzo, ma mediato. E' vero che Titta, l'allegro, scanzonato ginnasiale che fa da testimone degli eventi e da filo conduttore della vicenda, è una nuova proiezione dell'autore, come il giovane Morando incarnato a suo tempo da Interlenghi, come il giornalista e il regista impersonati da Mastroianni; ma è anche vero che egli adombra al tempo stesso una persona reale, un ex compagno di scuola di Fellini; e questa è una cosa che ha il suo peso. Dietro Titta, poi c'è la sua famiglia: è anzi questa famiglia la vera protagonista del film. Il padre, un sanguigno e manesco capomastro di fede anarchica; la madre, una donna di casa teneramente scorbutica; lo zio fascista e fannullone, noto col nomignolo di «Pataca»; il fratellino minore di Titta ed il nonno incorreggibile, che allunga di continuo le mani sulla servotta procace, concorrono a comporre un microcosmo tipicamente romagnolo, nel quale può bene specchiarsi e riconoscersi quell'altro microcosmo che è il Borgo". (Dario Zanelli, "Il Resto del Carlino", 19 dicembre 1973) "Sicché, preoccupandosi di rendere realistici i personaggi, rischia di trasformarli in macchiette; mentre la narrazione scivola nell'aneddotica, le scene si frammentano, polverizzano in sketches, gags, invenzioni estemporanee da teatro, anzi da cinema dell'arte... E il simbolo (il motociclista, il Rex) quando piomba in questa cronaca rusticana fa l'effetto di un signore distratto che abbia sbagliato luogo e film. Simbolo e realtà; cioè non si incontrano; ma si sfiorano; si passano accanto senza riconoscersi e senza salutarsi. Sicché il Borgo non diventa il Paese, o il Bel Paese, ossia non assurge a simbolo, nel suo microcosmo, del macrocosmo italico, come evidentemente era nei voti". (Claudio Quarantotto, "Il Giornale d'Italia", 19/20 dicembre 1973) "Amarcord, in romagnolo «A m'arcord», mi ricordo, la chiave di tutta la poetica felliniana, la cifra di un autore che, da quando fa cinema, nei suoi momenti più alti è sempre andato alla «ricerca del tempo perduto», trovando nei ricordi, nella memoria, la fonte più viva della sua ispirazione, unico Poeta nella cultura italiana, che abbia saputo trasporre dalle lettere al cinema il mirabile congegno di Proust". (Gian Luigi Rondi, "Il Tempo", 19 dicembre 1973) "Al gran maestro Federico Fellini basta mettere in libera uscita la consueta, pur se strepitosa, galleria di balordi già incontrata in tutti i suoi film da trent'anni in qua per lasciare i critici a bocca aperta e incastonare in bacheca un altro Oscar. Fu vera gloria? Ai posteri, sempre che non si addormentino davanti alla tv, l'ardua sentenza". (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 29 agosto 2000) "Onore ai meriti della Cineteca di Bologna che resuscita i classici (...) Amarcord (...) è una tale meraviglia di invenzioni, ironia, fantasia, legati dai refrain di Rota, che non ha bisogno di spinte: vederlo «grande» è divertimento puro. Raramente sono stati raggiunti vertici così inestricabili di comicità, poesia, malinconia. A scelta il vostro cult: il nonno nella nebbia, il Rex, lo zio matto, Grand Hotel, la Gradisca, la scuola, la tabaccaia. Ci amarcordiamo il magnifico cast e la biografia di provincia che diventa un pezzo struggente di vita collettiva. Gradisca." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 17 settembre 2015) "Amarcord è una paroletta bizzarra, un carillon, una capriola fonetica, un suono cabalistico, la marca di un aperitivo (...) Se si uniscono amare, core, ricordare e amaro, si arriva a 'Amar-cord', diceva Fellini. A 40 anni dall'Oscar miglior film straniero, ritorna in sala un capolavoro del regista riminese, forse il più accessibile e universale: Amarcord (1973). (...) Dalla Gradisca alla Volpina, passando per ironia, nostalgia e sensualità, "Amar-cord - ha ragione Tornatore - è una gran bella distrazione, un film terapeutico. Se stai male e lo vedi, ti passa". (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 17 settembre 2015)
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