NEWS a cura di Cinematografo.it

Amos Gitai

01 settembre 2014

Gitai amaro

"Con una storia di sofferenza come la nostra, assurdo credere ancora nell'uso della forza", dice il regista israeliano. A Venezia con un film sull'Olocausto

"Trovo ironico che dopo una lunga storia di sofferenza, noi israeliani crediamo ancora che la soluzione ai nostri problemi possa passare dall'uso della forza". Amos Gitai è critico nei confronti del proprio paese, colpevole della dura rappresaglia che nelle scorse settimane è costata la vita a centinaia di palestinesi, molti dei quali bambini: "Un bambino non è né israeliano né palestinese: è un bambino", chiosa Gitai. Che ce l'ha contro quei politici che non avendo più una visione, un progetto sul futuro, cavalcano l'onda violenta e razzista di una parte del popolo ebraico: "Il pericolo che minaccia maggiormente Israele non proviene da fuori - afferma - ma dal suo interno: è il rischio che le voci autoritarie e razziste prevalgano, che si creda più al denaro e ai fucili piuttosto che alle idee. I politici dovrebbero prendere il proprio lavoro più seriamente e marciare verso la pace. Sono sicuro che prima o poi ci arriveremo, ma al prezzo di quante vite?", si chiede il regista israeliano, da sempre convinto che si debba trovare un accordo con i vicini palestinesi: "Io sono solo un architetto che fa film, ho dei limiti. Ma da qualche parte dobbiamo incominciare", dichiara. Quella "qualche parte" cui fa riferimento è nel suo caso l'arte cinematografica intesa come testimonianza di verità e appello alla bellezza, due imperativi che ritroviamo anche nel nuovo lavoro di Gitai, Tsili, presentato fuori concorso a Venezia 71.Tratto dal romanzo di Aharon Appelfeld, Paesaggio con bambina, racconta di una giovane ebrea che si nasconde in un bosco per sfuggire alla cattura dei nazisti. E' il secondo film che Gitai dedica al tema della Shoah, dopo Più tardi capirai (2008): "Penso che l'olocausto sia stato strumentalizzato troppo, sta diventando un'arma politica usata da isreliani e oppositori rendendolo banale, perciò l'avevo affrontato solo una volta finora". D'altra parte, al tema della Shoah Gitai si accosta indirettamente, mirando più che altro a un'allegoria poetica del trauma e della memoria: "I veri sopravvissuti muoiono, i veri testimoni muiono, quello che rimane è solo l'opera d'arte che deve cercare di farne una rappresentazione", dice. Perciò la sua rivisitazione del romanzo della Appelfeld è quanto mai personale: "Il problema della trasposizione non è facile, da risolvere - afferma -. I grandi testi della letteratura non fanno buoni film. Il cinema non deve mai essere una semplice illustrazione del testo, ma la controparte di un dialogo, in cui ciascuno porta una conoscenza più approfondita dell'altro".

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