NEWS a cura di Cinematografo.it

Il regista Fatih Akin

31 agosto 2014

Il taglio di Akin

"Per l'arte vale anche la pena di morire", dice il regista turco-tedesco. In Concorso con The Cut, dal genocidio armeno al viaggio di ricerca

"Sì, per l'arte vale anche la pena di morire". Ne è sicuro Fatih Akin, oggi in Concorso a Venezia con The Cut, film che parte dal genocidio armeno per raccontare poi una storia "di ricerca, di cammino, che non si esaurisce nel conflitto tra protagonista e antagonisti". Mardin, 1915. Una notte la polizia turca fa irruzione nelle case armene e porta via tutti gli uomini della città, incluso il giovane fabbro Nazaret Manoogian (Tahar Rahim), separandolo dalla famiglia. Scampato miracolosamente all'orrore del genocidio, Nazar scopre che le sue due figlie gemelle sono ancora vive. L'uomo decide così di ritrovarle e si mette sulle loro tracce. Dai deserti della Mesopotamia a Cuba, fino agli Stati Uniti, Minneapolis e il North Dakota. "Mi ci sono voluti sette-otto anni per prepararmi emotivamente al film: qualcuno mi ha minacciato, ma sono cose a cui basta non dare troppo peso. Si tratta di piccole reazioni che non hanno importanza", racconta Akin, di nuovo a Venezia cinque anni dopo Soul Kitchen, con un film scritto insieme a Mardik Martin, storico sceneggiatore autore, tra gli altri, di Mean Streets, New York, New York e Toro scatenato: "Quella di The Cut è una storia vera, che ci crediate o no", afferma Martin (classe 1936), che spiega: "Nello scrivere sceneggiature, si prende la realtà che, ovviamente, viene plasmata e manipolata attraverso il passaggio da una persona all'altra. Poi si fa confluire tutto in una figura e questo crea l'unità della storia". Che riporta a galla la tragedia del genocidio armeno, troppe volte negata e taciuta: "C'erano alcune idee che volevo condividere con il pubblico, in particolare in Turchia. Volevo ci fosse empatia con il protagonista, o la storia. Per farlo era necessario ampliare il confine dell'identificazione, in modo di arrivare anche a coloro che negano il genocidio armeno, così da potersi identificare con il protagonista", racconta Akin, che spiega anche il percorso "religioso" di Nazaret: "Prima credeva a determinati dogmi, ad una religione. Poi nella sua vita accade una tragedia, le cose lo portano a perdere la fede. Durante tutto il film il protagonista scopre la spiritualità, la speranza. Si libera dei dogmi e arriva all'essenziale, alla spiritualità: questo è il viaggio personale che ho compiuto anche io rispetto alla religione". Nel cast del film, anche l'attore armeno Simon Abkarian: "Il film di Fatih era quello che gli armeni stavano aspettando. La prima generazione ha dovuto sopravvivere, la seconda vivere, la terza reagire. Un film non basta, dobbiamo farne di più, ma c'è una lobby turca che quando può interferire con film come questo non si tira indietro".Infine, la scelta di far parlare i personaggi armeni del film in inglese: "L'utilizzo dell'inglese non è per questioni di marketing. Voglio aver controllo anche sui dialoghi, non parlo l'armeno. Anche Bertolucci ha girato L'ultimo imperatore in inglese, stessa cosa ha fatto Polanski con Il pianista: la cosa essenziale è questa, quando dirigo i miei attori non voglio essere interrotto ogni cinque minuti da un coach che vada lì a riprenderli perché l'accento non va bene".

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