NEWS a cura di Cinematografo.it

Claudio G. Fava

22 aprile 2014

Claudio G.

Da critico, saggista e presentatore tv, Fava ha contribuito alla alfabetizzazione cinematografica degli italiani. Amava Melville e Sautet, ma in cima al suo olimpo personale c'era Truffaut

Sembrerà riduttivo, ma la prima cosa che nell'amarezza dell'addio mi viene in mente di Claudio G. Fava scomparso la sera di Pasqua nella sua Genova, è la sua singolare capacità di ridere di tutto e di far ridere i vecchi amici come gli ospiti occasionali. Quando dopo aver percorso gli squallidi corridoi della Rai di Viale Mazzini approdavamo al suo ufficio, Claudio G. non esitava a scrollarsi di dosso ogni sussiego burocratico per prodursi in una delle sue spericolate imitazioni degli inarrestabili monologhi di Walter Chiari, delle stridule invettive di Alberto Sordi, delle radiocronache di sconosciute squadre di calcio corse, di apocalittiche ingiunzioni della Wehrmacht o del Generale De Gaulle. Il divertimento, si capisce, consisteva soprattutto nella funambolica precisione di lingue, dialetti, accenti, intonazioni che si andavano perfezionando con varianti e aggiunte a ogni nuova replica. Il fatto è che la divisa di funzionario televisivo – era entrato a Raiuno nel '70 per diventare poi all'inizio degli ottanta capostruttura a Raidue – gli stava stretta.Straordinario conoscitore del cinema americano e francese, oltre che naturalmente italiano, si era inventato sin dall'inizio il nuovo mestiere del presentatore tv, che non aveva nulla a che fare con le logorroiche cateratte che si sarebbero aperte nell'ultimo ventennio. No, nell'allestire i suoi cicli dedicati a attori e registi, sceglie i film, ne controlla il doppiaggio italiano con la colonna internazionale, recupera con maniacale accanimento filologico i brani tagliati che provvede a far sottotitolare. A ogni film premette poi un commento documentato e essenziale, ricchissimo di fotogrammi che fa stampare apposta dalle copie, in modo di apparire in video non più del necessario. Giornalista della carta stampata – non lascia mai il Corriere Mercantile su cui aveva cominciato come critico – nel giro di qualche anno riesce a stabilire con il pubblico a casa un rapporto di complicità in cui non mancano le battute ironiche e gli aneddoti.La grande platea televisiva era allora sterminata, oscillando per il film di prima serata tra i dieci e i quindici milioni di spettatori. Quando qualcuno si complimenta con lui per la riuscita di un ciclo, ricorda tra il divertito e l'imbarazzato che manda in onda decine e decine di film tutti i mesi, recuperando titoli mai arrivati o ridoppiando pellicole sconosciute agli stessi cinefili. Certo, sulla sua strada altri sono venuti, ma il contributo di Claudio G. Fava alla alfabetizzazione cinematografica degli italiani è fuori discussione.Subito dopo i film vengono negli anni successivi le serie che acquista e programma su Raidue, da Beautiful a Miami Vice, di cui andava particolarmente orgoglioso. Sul ruolo innovativo di Miami Vice nel panorama del telefilm poliziesco aveva le idee chiarissime, perché accanto al cinema aveva sempre coltivato l'interesse per il giallo e la spy-story. Scrittore di culto John le Carré, di cui ammira la prosa suadente e ossimorica, e conosce quasi a memoria la saga del Circus con Smiley, lo sfuggente eroe dell'understatement. Non posso dimenticare le ore che abbiamo dedicato alla collana "Le stelle filanti", i ritratti di attori ripercorsi film per film che insieme inventiamo alla fine degli anni settanta per un editore romano. Solo più tardi si aggiungerà "Effetto cinema" sui registi. Se le due collane si portano via per anni tutti i nostri sabati, nel requisire almeno in parte il fine settimana il mio amico era irriducibile, tra la trentina di volumi usciti sotto la nostra direzione, mi sembra che il suo Alberto Sordi resista benissimo al tempo.Sin dall'inizio dei settanta, ma via via anche lungo gli ottanta, i novanta e oltre, sulla Rivista del Cinematografo ha scritto centinaia di recensioni, disincantati documenti di una passione e di un gusto estranee a ogni routine, che andrebbero senz'altro raccolte in volume al più presto. Se sono note le sue predilezioni per Jean-Pierre Melville o Claude Sautet, non è un mistero neppure il suo amore per François Truffaut che stava molto in alto nel suo olimpo personale di critico. Quando finalmente riesce a incontrarlo di persona per Dolly, la rubrica cinematografica che curava, ne esce una memorabile intervista, che paradossalmente è anche una strepitosa, assurda, impossibile gara di pronuncia tra il grande regista francese e il critico tanto francofilo da rischiare di essere più realista del re.

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