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<i>Harry Potter e i doni della morte - Parte II</i>

07 luglio 2011

Harry, dalla fine all'inizio

Considerazioni inattuali e di scarso appeal sul fenomeno letterario e cinematografico del decennio. Giunto al capolinea, forse

Nella mia fine è il mio principio. L'abbiamo già sentito. Un verso poetico (da I quattro quartetti di Thomas Stearns Eliot), il titolo di un libro (forse il più bello di Agatha Christie), l'evidenza apodittica del mantra. Torna. Riecheggia nel finale, col finale, di Harry Potter. I "doni della morte" non sono che questa reversio all'origine. Non all'inizio, ma prima che tutto abbia inizio. Il 13 luglio (in Italia) il grande epilogo della saga è una fine già scritta, diffusa, condivisa. La conoscono i fan e non solo. Dagli scaffali alla rete, dalle pagine ad Internet, quello che c'è da sapere sull'ultimo atto è noto. Persino i dettagli conoscono. Non del libro, ovvio, ma del film. L'attesa è semmai nell'epifania per immagini.Dove le parole creano sintassi interiori, il grande schermo impone volti, simulacri, scenografie. Dal visibile al non, dall'oggetto al soggetto: ponti. Uno appare poco prima del finale. I tre protagonisti – Harry, Ron ed Hermione – vi si ritrovano, immergono lo sguardo l'uno nell'altro, e altrove. Un momento che nel romanzo della Rowling semplicemente manca. Un inciso scritto tutto con la lingua del cinema. Figurativo, emozionale. L'orizzonte interiore dei primi piani delimita una soglia invisibile, dove chi erano e cosa sono diventati si danno convegno per un ultimo abbraccio. Poi non ci sarà più tempo. Crescere è un mestiere triste. Un passaggio al futuro sul cadavere del passato. Solo "se il seme muore, produce molto frutto" (Gv 12,24). Così è per il piccolo stregone. Harry Potter non ricaccerà nelle tenebre soltanto il Signore Oscuro, ma anche se stesso. Letteralmente: deve morire con lui. Se vuole risorgere. Né Messia né magia. Trucco da narratori semmai. Non un trapasso ma un passaggio di stato, dall'infanzia all'età adulta. L'abbandono delle paure per il tempo delle responsabilità. Una fantasmagoria dello sviluppo.L'utilizzo disinvolto dell'escatologia cristiana, nell'epilogo, nasconde l'intenzione pedagogica della saga. L'ultima stazione racchiude tutte le tappe. Nella sua fine il suo principio, appunto. Sotto il profilo narrativo e progettuale, serialità cinematografica e letteraria sono identiche. La saga abbonda di suggestioni e simboli, ma si struttura attorno a un modello di crescita elementare. Che tiene conto tanto della maturazione dei protagonisti quanto dei suoi aficionados. La cosa curiosa è però un'altra. I lettori dei romanzi sono i più accaniti spettatori dei film. Se vanno al cinema, non cercano una storia. Quella la conoscono già. Il punto è l'immagine. Non c'è fine nell'immagine. Che duplica, conserva, (ri)crea. Gli appassionati della saga vanno al cinema per la rassicurazione che il loro feticcio non morirà. Da una parte l'occhio artificiale cattura la parola. Che diventa corpo, presenza incastonata nella rappresentazione. Dall'altra la rivela come sogno imperituro, non soggetto a durata. Harry Potter non solo é ancora lì – nell'immagine – ma sarà sempre lì. Nuovamente, ogni volta. Non a caso quello che succede generalmente con gli adattamenti, qui non avviene. Nella maggior parte dei casi il paragone tra libro e film è misura di un'inadeguatezza (del cinema), genera delusione (del lettore). In questo caso i fan sono i primi a riconoscere al grande schermo una funzione decisiva: esorcizzare il logorio del feticcio col feticismo dell'immagine.Un'intuizione simile deve avere guidato Obama quando ha deciso di vietare la pubblicazione delle foto di Bin Laden morto. La loro diffusione anziché accertare l'uccisione del leader di Al Qaeda avrebbero sortito probabilmente un effetto contrario: il suo eterno ritorno nell'immaginario. D'altra parte, una volta pubblicate, chi avrebbe garantito che il Bin Laden della foto fosse anche quello della realtà? In un'epoca come questa – segnata dal ritocco e dal digitale - cosa attesta un'immagine, se non sempre e solo se stessa? Inoltre il segno iconico è ontologicamente ambiguo. L'essere è lì e non è lì. Si mostra e nello stesso tempo si sottrae. I doni della morte – per la regia di David Yates – esibiscono questa doppiezza, sfruttando il circuito del desiderio e della perdita attivato dell'immagine. Gli ultimi due film della saga rivelano una cifra cinematografica inedita ai precedenti. La stessa magia si riduce a un esercizio sul visibile: l'illusione ottica, la metamorfosi, la moltiplicazione a specchio, l'occultamento, la smaterializzazione, non sono in definitiva gli stessi procedimenti utilizzati dal cinema? La scopofilia sfacciata segnala il vero scarto con l'Harry Potter di carta. E apre in teoria scenari alternativi a quelli editoriali. Più in linea con la dimensione virtuale, ciclica e colonialista del cinema hollywoodiano contemporaneo. Chi ci impedisce di pensare che - nonostante la conclusione della saga letteraria - la vita del maghetto non possa andare avanti, continuare oltre i confini segnati sui libri? Dentro il grande schermo nulla si distrugge (figuriamoci se rende: la Warner ha guadagnato quasi 10 miliardi di dollari col franchise). Inedite puntate, nuovi reboot e film-mondo sono disponibili. Nella fine è sempre possibile un principio. Li chiamano I doni della morte, sono le sorprese del cinema.

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