NEWS a cura di Cinematografo.it

Alexandre Rockwell

05 novembre 2010

Indipendenti, unitevi!

"L'indie è come una bestia selvaggia: non può essere chiusa in gabbia", dice l'ex enfant terrible Alexandre Rockwell. A Roma con Pete Smalls is Dead

Faber et magister del cinema indie americano ("mi piace il mestiere del cinema, quando è libero", dirà) Alexandre Rockwell è rimasto fermo otto anni: "Prima di fare un film - spiega - in genere passa un sacco di tempo perchè sono sempre a corto di soldi. Nel frattempo ci penso continuamente, e nella mia mente prendono forma i dialoghi". Quelli che - da In The Soup (1992) a 13 Moons (2002) - l'hanno reso famoso nel mondo. Quello almeno che ha guardato i suoi lavori. A Roma per chiudere il ciclo di incontri con il pubblico, Rockwell presenta la sua ultima strampalata creatura, Pete Smalls is Dead, omaggio alticcio e anarchico al cinema underground, quindi al suo, e al suo lavoro ai fianchi del sistema Hollywoodiano. Bersaglio prediletto da sempre sono i produttori o, come li chiama lui, i gangster: "Gangster deboli però, perché hanno questa famigerata illusione di eternità". "Io odio la criminalità - aggiunge - a meno che non sia perpetrata contro una banca. Spesso i gangster sono attirati dagli artisti. Ce n'era uno che aveva un fratello che mi chiamava spesso la notte per minacciarmi di morte, voleva vedere il film, mi assillava chiedendomi dove fossero finiti i soldi, se me li ero intascati. Oggi è diventato famoso, e io continuo a mandargli libri in galera". Ingestibile anche come intervistat, Rockwell è flusso di coscienza e aneddoti personali e geniali battute. Impossibile trascrivere tutto. Alle sue spalle scorrono le immagini dei film che l'hanno reso famoso, come In The Soup: "Un film molto personale - racconta - perché come il protagonista di quel film, ho venduto tutto quello che avevo per ottenere i soldi necessari per fare i film. Alla fine ho comprato un sassofono pensando che sarei diventato un grande musicista jazz. Ma è stata una pessima idea". E a proposito del successo di quel film "pensavo fosse una tragedia, non mi ero reso conto che potesse risultare divertente. Ma il lavoro di noi cineasti è spesso così, fortuito, non sai mai come troverai la giusta alchimia". Quel film era interpretato da un giovanissimo Steve Buscemi che, insieme a Tim Roth e Jennifer Beals, ritorneranno spesso nei suoi film: "il cinema per me è come una grande famiglia", spiega. Come Cassavetes, il suo grande amico e mentore: "L'assassinio di un allibratore cinese è un film che mi ha segnato per sempre", Senza contare quel modo di lavorare così improvvisato eppur così perfetto, perchè "l'improvvisazione è come la musica: il dialogo sono le note, gli attori i musicisti capaci di suonarle nel modo migliore". E alla fine affiora pure un po' di commozione quando passano le immagini de Le notti di Cabiria "che ho visto una sola volta quando ero piccolo e non riesco più a rivedere perché mi sale un groppone alla gola: io, che ero un asino a scuola, capivo le sue immagini e le emozioni che ci stavano sotto. Fellini è stato come un padre". E poi c'è un Paolo Conte che non t'aspetti, che "ha un'influenza enorme su di me. Non so perché, non capisco niente di quello che canta e che dice. Mi piace molto però, mi sento rivoltare dentro quando l'ascolto". E sullo stato dell'arte cinematografica: "E' vero, le cose son cambiate. La mia generazione di registi conosceva la storia: Fellini John Ford, e rimaneva sveglia fino a notte tarda pur di vedere i loro film. Oggi non è più così. Lo spirito indipendente è come una bestia selvaggia, non può essere rinchiuso in una gabbia. Ma non dobbiamo essere tristi, dobbiamo farli insieme questi film. Penso alle coproduzioni che hanno permesso anche questo mio ultimo lavoro".

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