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21 ottobre 2009

Due svastiche e una capanna

a cura di Cinematografo.it

"E' una storia d'amore in un contesto dove quel sentimento non č accettato", dice Nicolo Donato. Che scuote il Festival coi nazigay danesi di Brotherhood

"Volevo raccontare una storia d'amore. Il nazismo, la violenza, passano in secondo piano: non si tratta semplicemente di gay o nazisti, ma di due persone che si incontrano. E che si innamorano". Non avessimo visto il film, Brotherhood, stasera in Concorso al Festival di Roma, potremmo anche credere alle parole di Nicolo Donato, regista esordiente italo-danese che evita di affrontare l'attualità suggerita dalla sua opera ("Preferirei non parlare del movimento neonazista in Danimarca") e si trincera quanto più possibile, provando in qualche modo a sminuire la portata provocatoria insita nel suo film, vero e proprio racconto di "individuazione" incentrato sulla dirompente passione che coinvolgerà l'ex sergente Lars (Thure Lindhardt), nuova "matricola" di un gruppo neonazista, e il militante Jimmy (David Dencik), picchiatore omofobo e razzista: "Quello che davvero ci interessava - dice ancora Donato, un passato di fotografo di moda e di "tuttofare" alla Zentropa di Lars von Trier - era provare ad inscrivere questo sentimento in un contesto dove l'amore non viene accettato ma dove, in realtà, alla fine è possibile che nasca lo stesso. La forza dell'amore, alle volte, è tale che provare ad arginarla è pressoché impossibile". Nessun riferimento a fatti o persone reali, Brotherhood nasce però da una suggestione di qualche tempo fa: "Circa quattro anni fa ho visto un documentario tedesco che mi ha molto colpito - conclude il regista - incentrato sulla doppia vita di un neonazista, poi morto di AIDS. Di giorno era il leader del movimento ad Amburgo, mentre la notte cercava la felicità tra le braccia di altri uomini".

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