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04 settembre 2009

Anima in movimento

a cura di Cinematografo.it

"Questo Premio è un incoraggiamento a realizzare i prossimi film con lo stesso rigore del grande cineasta francese", dice Walter Salles. Oggi al Lido per il "Bresson" 2009

I personaggi si muovono e viaggiano sempre, nei film di Walter Salles. Per curiosità, per necessità, per bisogno interiore. Ma il movimento non è soltanto fisico e orizzontale: il movimento è nella profondità dell'essere, è un movimento interiore. Quello cui guardava, cercando di realizzarlo sullo schermo, proprio Robert Bresson, al quale si deve questa confessione cinematografica. Tutti viaggiano, dunque: il giovane Paco di Terra straniera, Josué e Dora nel commovente, premiato e amato Central do Brasil, Tonio in Disperato aprile, Ernesto Che Guevara e Alberto Granado ne I diari della motocicletta, i quattro giovani dalla vita al margine in Linha de passe, errabondi nella caotica e immensa San Paolo. Nel futuro, Dean e Sal, i protagonisti di On the Road, romanzo-simbolo della beat generation di Jack Kerouac, l'attuale e arduo progetto che forse diverrà possibile visto che Francis Ford Coppola – è lui che detiene i diritti - ha individuato proprio in "Waltinho" Salles il regista ideale per tradurre in immagini i viaggi panamericani dello scrittore di culto. Per questa sua anima sempre in movimento, in ricerca, il regista brasiliano riceve oggi a Venezia il Premio Bresson istituito dalla Fondazione Ente dello Spettacolo insieme ai Pontifici consigli delle Comunicazioni Sociali e della Cultura. E non è un caso che, anche per questa sua decima edizione, il Premio guardi ancora una volta al sud del mondo, all'America Latina, dopo l'argentino Daniel Burman lo scorso anno. Nato a Rio de Janeiro, il padre banchiere e diplomatico, Salles ha avuto un'infanzia che ha influenzato non poco le sue scelte professionali. "Un'infanzia nomade. Questo spostamento costante da latitudine a latitudine ha prodotto un interesse per ciò che è sconosciuto, per le culture lontane dalle mie radici, insieme ad una continua sensazione di perdita. Il cinema è stato un ancora di salvezza, ha reso più sopportabile questo mio esilio. Le vite che vedevo sullo schermo erano molto più interessanti della mia. In quegli anni ho scoperto i neorealisti italiani, Truffaut, Godard. Allo stesso tempo, ho cominciato ad interessarmi alla fotografia, specialmente quella di Cartier-Bresson, André Kertész e Robert Doisneau, i fotografi cosiddetti umanisti". I primi dieci anni li ha dedicati esclusivamente al documentario. Volevo scoprire il Brasile dopo aver trascorso molti anni fuori dal mio paese. Il documentario riesce a farti capire la vita vera, quella che trascorre fuori dalla tua casa. Central do Brasil e I diari della motocicletta non sarebbero stati possibili se non fossi passato attraverso questa esperienza. Il documentario ti permette di catturare forme di vita inaspettate e che non si ripetono mai. Tutta la parte girata a Cuzco e Machu Picchu nei Diari è materiale improvvisato, il risultato di un cinema di finzione che diviene materia viva, capace di cambiare a causa di incontri inaspettati. Il Brasile è il Paese in cui le telenovelas sono diventate un fenomeno non solo televisivo, ma di cultura di massa, produttivamente assai curate. La televisione ha influenzato il suo studio e la sua professione? Il cinema ci trasporta in direzione di ciò che è sconosciuto, che ci permette di comprendere una realtà inimmaginabile. Questo lo sento moltissimo nelle opere, ad esempio, di due autori tra i miei preferiti, Abbas Kiarostami e Jia Zhang-Ke. La televisione, invece, rifacendomi ad una deifinizione del saggista inglese John Berger, fa esattamente il contrario: è una forma di trasmissione di immagini che rafforzano ciò che già si conosce, non si scopre nulla, crea soltanto una abitudine. Le serie televisive si basano sul concetto di ripetizione. Tutti i giorni la stessa cosa, con una apparente trasformazione, una novità, nel finale del capitolo. E' come se si mettesse in pratica la famosa constatazione del Gattopardo: è necessario che tutto cambi affinché tutto rimanga eguale. Non amo la televisione. Viaggiare: una costante del suo cinema. Che si affianca a quali altre esperienze necessarie? Mi interessano i racconti nei quali il processo di trasformazione dei personaggi rappresenta, in un certo senso, una trasformazione più ampia, quella dell'intera società in cui vivono. Come è accaduto in Central do Brasil: la ricerca del padre diventava la ricerca di un paese in crisi di identità; non è una causalità che queste due parole, padre e paese, si assomigliano tanto in portoghese: pai e pais. Solo una lettera le contraddistingue. La questione dell'identità, sia personale che collettiva, mi ha sempre affascinato nel cinema. Non per nulla è stato proprio Professione: reporter di Antonioni che mi ha fatto decidere di fare il regista. I protagonisti dei suoi film, oltre a viaggiare, dimostrano che ciò che conta è lo spessore di una persona. Basta guardare il punto di incontro tra il giovane Josuè di Central do Brasil ed Ernesto nei Diari: entrambi tendono a non accettare ciò che il destino riserva loro. Per questo lottano, per riscrivere la loro storia. Questa inquietudine, mischiata ad un salutare "scetticismo", mi pare necessaria. Ma su tutti si erge il grande continente Latino americano: con le sue contraddizioni, paure, speranze. Diversi miei film sono, prima di tutto, un tentattivo di avvicinare l'identità brasiliana, ossia la ricerca di qualche cosa ancora in cambiamento. I diari della motocicletta hanno poi cercato di ampliare questa ricerca allargandola all'intera America Latina. La traiettoria dei giovani Ernesto Che Guevara e Alberto Granado mi ha permesso di tuffarmi in un continente che negli anni '50 era parzialmente sconosciuto e in parte lo rimane ancora. Il fatto è che i problemi strutturali degli anni '50 sono ancora, per molti aspetti, identici a quelli di oggi, dovuti soprattutto ad una pessima ripartizione della terra e della ricchezza. Ho cominciato quel film sentendomi un regista essenzialmente brasiliano e sono arrivato, alla fine, ad avere la percezione di appartenere a qualche cosa di molto più ampio. Il cinema del suo Paese, come quello dell'intera America latina, sta vivendo un periodo particolarmente fecondo. La mia generazione è stata la prima a poter realizzare film con quella libertà che ci era stata negata nel corso degli oltre venti anni di dittatura militare, non solo in Brasile, ma anche in altri paesi del continente. Si ricominciava a pronunciare ciascuna sillaba con un nuovo piacere. In Brasile, però, il caso fu ancora peggiore: il primo presidente liberamente eletto dopo la dittatura militare, Fernando Collor, entrò in collisione con il settore della cultura, che non lo aveva appoggiato durante la campagna elettorale. Questo ha causato la sparizione del nostro cinema per altri cinque anni, dal 1989 al 1994. Quando abbiamo recuperato la possibilità di esercitare il nostro lavoro, lo abbiamo fatto con un entusiasmo incontenibile, come se tutto si fosse reso possibile. Questo ciclo, conosciuto come la "retomada", la ripresa, è durata circa otto, nove anni. Anche in altri Paesi, penso al Perù e all'Uruguay, col film Gigante di Adrián Biniez, stiamo assistendo ad una grande vitalità artistica. Temo, però, che a causa dell'attuale crisi economica, il nostro cinema abbia di nuovo un futuro incerto. Nel 1998 a Berlino Central do Brasil vince il Premio Signis della Giuria ecumenica e nel 2004 a Cannes la medesima Giuria premia i suoi Diari della motocicletta. Si è mai chiesto la ragione di questa speciale attenzione? Nei Diari scritti da Ernesto ho trovato un chiaro desiderio di capire chi siamo e da dove veniamo, così come la determinazione ad andare oltre la propria classe sociale. Questi due straordinari viaggiatori sentono che le persone che si incontrano sul proprio cammino non sono una minaccia, ma un valore. Ebbene, pensiamo a tutto questo calandolo negli anni Cinquanta, segnati dall'espandersi della paura suscitata dal Maccartismo. Gli "altri", gli sconosciuti, erano visti come potenzialmente pericolosi. Questo non vale per Ernesto e Alberto. Alla fine, il loro racconto è segnato dalla necessità dell'indignazione e dall'urgenza di dover fare scelte radicali. Per me, I diari è un film su due giovani che scoprono un continente e si appassionano per la sua gente decidendo da quale parte stare. L'integrità di questo gesto mi ha affascinato e mi affascina ancor oggi. Con Linha de Passe è ritornato, a dieci anni esatti di distanza da Central do Brasil, a una storia tutta brasiliana.Ritorno spesso al Brasile, la mia Itaca. Linha de passe è nato dal desiderio di parlare della periferia brasiliana in modo diverso solitamente la si descrive al cinema. I giovani della nostra periferia che impugnano una AK47 sono l'eccezione, non la norma. Racconto di giovani che lottano per rinnovarsi: è stata una grande sfida e una grande lezione. Il Premio Bresson è un premio cattolico attribuito da due Dicasteri vaticani e intitolato ad uno dei più grandi registi europei del Novecento: le due cose quali pensieri le suscitano? Bresson è stato un regista fondamentale nella mia formazione artistica: Pickpocket, Un condamné à mort s'est échappé, Au hasard Balthazar e L'argent sono opere che mi hanno insegnato a considerare e rispettare il valore del silenzio, la durata del progetto, la possibilità di lavorare con attori non professionisti e l'attenzione a ciò che deve rimanere hors-champ, fuori campo. Quando penso a Bresson, il mio pensiero mi porta a Dreyer e Tarkovsky, ma anche a Kieslowski. E a Pasolini, al dibattito affascinante che affrontò nei Sopralluoghi in Palestina, il documentario realizzato nel 1963 in preparazione al Vangelo secondo Matteo. Parlo di questi autori come registi che hanno affrontato il cinema con il medesimo rigore etico e morale. Il Premio che oggi ricevo lo ritengo un incoraggiamento a scrivere e dirigere i prossimi film, se arriveranno, con quello stesso rigore. Nei suoi progetti, nuovi viaggi. Le sceneggiature dei film che realizzo impiegano un bel po' di tempo per maturare. Per questo lavoro contemporaneamente a più progetti. Sto terminando in questo momento un documentario su On the road e la generazione formata da Ginsberg, Kerouac, Burroughs, Cassady, Ferlinghetti. E' una generazione di figli di emigranti che si scontrarono con una America poco permeabile alle idee non convenzionali. E' una generazione che mi interessa anche perché molte delle micro-rivoluzioni che scoppiarono negli anni Sessanta e Settanta, queli della mia formazione, non avrebbero potuto schiudersi se non ci fossero stati i cambiamenti messi in moto dalla beat generation. Il documentario è una preparazione ad una possibile trasposizione cinematografica tratta dal famoso libro di Kerouac – dico possibile perché il momento non è dei migliori per finanziare pellicole indipendenti. Sto anche lavorando ad adattamenti di libri o storie originali, come è il caso di El Entenado (L'Arcano), il più celebre romanzo di Juan José Saer, una riflessione affascinante sulla nostra storia, su quel periodo che gli spagnoli chiamarono "conquista" e gli indigeni "invasione".

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